Sono passati oltre settant’anni dal 9 settembre 1943, ma la corazzata Roma ha ancora la forza di emozionare. Laggiù negli abissi più profondi, solitaria custode dei suoi uomini, continua a far parlare di sé. Perché? È una delle domande che mi posi pochi anni dopo che mio nonno, marinaio superstite della Roma, ci lasciò, nel 1999. Cercai quelle risposte nel suo piccolo diario scritto di pugno appena dopo la guerra, ma fu subito evidente che era troppo approssimativo. Il quaderno non bastava per conoscere fino in fondo la vicenda sua e della sua nave. Conservavo nella mia memoria i ricordi lucidi dei suoi racconti e dei momenti passati insieme a lui e ai suoi compagni, ma stavano anch’essi sbiadendo velocemente. “Brucia pure tutto, ormai è cartaccia!”, mi aveva detto mia nonna qualche anno dopo che il nonno era “tornato a bordo della sua nave”, come diceva lei, lontano ormai per sempre. Mi aveva indicato un sacco di vecchie lettere e fogli vari che ingombravano i cassetti di un vecchio armadio. Per fortuna
esaminai qualcuno di quei fogli pochi istanti prima di gettarli nella stufa a legna: si trattava della corrispondenza con i suoi vecchi compagni, d’armi e gli amici spagnoli, un’autentica miniera di informazioni introvabili in qualsiasi archivio. Recuperato questo “tesoro” mi misi in cerca di tutto ciò che poteva servirmi e di chi poteva aiutarmi. Non persi tempo e andai a cercare i reduci della Roma: Giovanni Vittani e Marco Bianco, entrambi di Sanremo, i suoi vecchi amici d’infanzia ancora in grado di raccontare. Erano gli unici testimoni conosciuti che potevano aiutarmi a ricostruire ciò che accadde realmente dall’estate del ‘43 al ‘45.
Nonostante la loro affabilità, rimasi un po’ deluso: non avevano molta voglia di raccontare. Sembravano come arresi al tempo che aveva cancellato troppe cose ed erano convinti che la vicenda non interessasse più a nessuno. Intuii che la chiave per aprire lo scrigno dei loro ricordi sarebbe stata quella di entrare in una dimensione diversa: non potevano limitarsi a raccontare e non potevo semplicemente trascrivere le loro reminiscenze, che sembravano mutare a ogni incontro. Occorreva viaggiare insieme indietro nel tempo; i vecchi marinai dovevano tornare a vent’anni insieme ai superstiti coinvolgendo il lettore a tal punto da farlo sentire a fianco. Dovevano “farmi salire sulla Roma con loro”, in un viaggio in bianco e nero nel ‘900. L’altra sfida è stata quella di trascrivere l’intensità delle emozioni vissute dai marinai, percepire il loro odore, la loro voce, le loro paure e la loro innocenza di ventenni. Occorreva dunque plasmare le loro versioni dentro la storia, rendendola una sola, raccontata in presa diretta come fosse davvero il diario di un marinaio e, soprattutto, era necessario integrarle con la descrizione della nave, sempre tratteggiata sommariamente e data per scontata nelle testimonianze.
Contattai altri superstiti sparsi per l’Italia e andai subito a trovarli. Fu facile comunicare, con gli anziani reduci della Roma che mi hanno dimostrato subito grande affetto e fiducia. Sapevano cosa io volevo ascoltare e sapevo cosa volevano raccontare. Godevo di un privilegio, una sorta di lasciapassare: ero il nipote di un loro compagno, un “loro” nipote. Appena entrato nelle loro abitazioni, l’occhio cadeva costantemente su una immagine in bella vista, uguale in tutte le case. La Roma. Ed è infatti lei, la nave, la silenziosa protagonista principale del mio libro, (Una tragedia italiana. 1943. L’affondamento della corazzata Roma, edizioni Longanesi), trasformata dalla rielaborazione del racconto in una sorta di personaggio vivente, quasi fosse un elemento pulsante della storia degli uomini, che con lei solcarono le acque del Mediterraneo nell’ultima navigazione della flotta della Regia Marina Italiana, al comando dell’ammiraglio Carlo Bergamini, scomparso nell’affondamento della sua nave ammiraglia insieme a 1393 uomini. Le drammatiche immagini dell’esplosione che la distrussero, sembrano rappresentare anche la fine di un’era, non solo dal punto di vista strategico – una gigantesca corazzata considerata invincibile, colata a picco in pochi minuti da due piccoli aerei, armati con segretissime armi teleguidate di sorprendente potenza e precisione – ma anche politico e sociale. Con la fine della grande potenza navale, i rampolli dell’aristocrazia italiana imbarcati come ufficiali, ricordiamo che proprio la Roma era malignamente considerata la nave dei raccomandati, furono i primi a subire le conseguenze della fine inesorabile di un sistema, cancellando, da un giorno all’altro e per sempre, tutti i sogni di gloria, all’alba della fine della monarchia. L’ultimo disperato combattimento delle Forze Navali, la battaglia contro gli Alleati nel golfo di Salerno, non ci fu mai e l’improvviso armistizio trasformò le navi e i marinai nell’ambito trofeo dei vecchi avversari e, soprattutto, nell’obiettivo dei nuovi nemici.
Ma la mia storia non poteva né doveva finire con l’affondamento della corazzata; doveva descrivere anche l’altra parte fondamentale di questa vicenda: ciò che avvenne dal giorno dopo il disastro, quando sette navi della flotta soccorsero i naufraghi e li sbarcarono alle Baleari, nella Spagna neutrale, dove trascorsero quattro mesi per poi essere trasferiti in un’altra località della Catalogna fino all’estate del’44, quando tornarono nell’Italia del Sud. Le informazioni a riguardo erano ancora più vaghe e disordinate, occorreva senza indugio recarsi in quei luoghi per descrivere con precisione ogni dettaglio, intervistando possibilmente i testimoni dell’epoca ancora viventi. Organizzammo nel settembre 2008 la celebrazione del 65° anniversario dell’affondamento della Roma a Minorca, l’isola in cui sbarcarono buona parte dei superstiti all’alba del 10 settembre ’43. Grazie a uno di loro, Dante Bartoli, ho potuto vivere l’emozione di una visita guidata nell’edificio abbandonato del vecchio ospedale dell’Isla del Rey il piccolo isolotto nella baia di Mahon che ospita anche il museo dedicato alla corazzata Roma, e nella desolata base navale in cui furono internati nell’inverno del ’43. Vagando per gli edifici in rovina, l’impressione di noi tutti è stata quella di trovarsi in un vecchio e macilento teatro abitato solo dai fantasmi di quei giovanissimi marinai italiani relegati nel ’43 in un angolo sperduto del Mediterraneo. Grazie a Dante e altri testimoni del luogo, come suor Demetria Bragado e don Vicente Macian, che ben ricordano i giorni d’autunno del ’43, sono stati ricostruiti fedelmente molti particolari di quei mesi erroneamente considerati senza storia e riportati nelle pagine del libro. Chi ha la possibilità dovrebbe recarvisi: non solo all’Isla del Rey, ma anche nel piccolo cimitero cittadino, dove un mausoleo realizzato nel 1952 dalla Marina Militare Italiana custodisce le spoglie di ventisei caduti dell’ammiraglia della Regia Marina deceduti per le ferite riportate durante la drammatica notte del viaggio verso le Baleari. La loro tomba è da tutti ormai considerata un piccolo pezzetto d’Italia, su cui sventola tutto l’anno la nostra bandiera, meritando senza dubbio l’omaggio di ogni italiano che si trova da quelle parti.
Testo di Andrea Amici pubblicato sul numero 59 di Arte Navale. Su gentile concessione della rivista Arte Navale. Le immagini della Collezione privata George Matthews sono pubblicate su gentile concessione della rivista Arte Navale. E’ fatto divieto per chiunque di riprodurre da mareonline.it qualsiasi immagine se non previa autorizzazione direttamente espressa dall’autore delle immagini al quale spettano tutte le facoltà accordate dalla legge sul diritto d’autore, quali i diritti di utilizzazione economica e quelli morali.
pubblicato il 3 Febbraio 2015 da admin | in Personaggi, Storie | tag: Carlo Bergamini, Una tragedia italiana | commenti: 0