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Maledetto Passaggio a nord ovest,
così sterminò l’equipaggio di Franklin

“Con cento uomini di mare Franklin prese il largo / verso l’oceano ghiacciato nel mese di maggio / per cercare un Passaggio attraverso il Polo Nord / dove noi poveri marinai a volte andiamo. / Lottarono duramente contro crudeli difficoltà / la loro nave fu sospinta contro montagne di ghiaccio / solo l’eschimese con la sua canoa di pelle / era l’unico che poteva venirne fuori. / Nella baia di Baffin dove la balena soffia / nessuno è in grado di conoscere il destino di Franklin / il destino di Franklin nessuna lingua lo può raccontare / Lord Franklin riposa con i suoi marinai…”. I versi di questa celebre ballata inglese, Lord Franklin, ancora oggi nota agli appassionati di musica folk, non lascia dubbi: la tragica epopea della spedizione inglese, salpata nel 1845 per cercare il celebre Passaggio a Nord-Ovest, lasciò una profonda cicatrice nella memoria collettiva delle isole britanniche. Ma perché l’impavido contrammiraglio John Franklin e tutti i suoi uomini andarono incontro a una fine così orribile, sfiniti dal congelamento, dalla fame e dalle malattie? In un mondo in cui i primi piroscafi a vapore erano apparsi meno di trent’anni prima e i mari erano solcati ancora in maggioranza dai velieri, i collegamenti intercontinentali costituivano un grande impegno in termini di mezzi, denaro e, non di rado, vite umane. Il canale di Panama non era neppure allo stadio di utopico progetto (sarebbe stato inaugurato nel 1914) e per trasportare merci e passeggeri dall’Europa alle coste del Pacifico era obbligatorio compiere il periplo dell’America del Sud, affrontando i Quaranta Ruggenti e i Cinquanta Urlanti per poi doppiare il famigerato capo Horn, noto come Cimitero delle navi.

Tutti a caccia di una via d’acqua in mezzo all’America

Ovvio che, allora, gli spiriti più arditi del tempo anelassero scoprire una rotta commerciale, meno travagliata, dall’Oceano Atlantico al Pacifico attraversando l’arcipelago artico canadese. Questo itinerario, oltretutto, avrebbe costituito una vantaggiosa alternativa anche per il raggiungimento dei ricchi porti dell’Estremo Oriente, evitando la circumnavigazione dell’Africa e la traversata dell’Oceano Indiano e del Mar Giallo, infestato dai pirati. Tuttavia, alla metà del XIX secolo, pianificare una simile impresa non era molto dissimile da quanto oggi significhi inviare un equipaggio umano nello spazio. Forse era perfino più arduo: le regioni artiche erano pressoché ignote, la cartografia approssimativa, i mezzi e gli equipaggiamenti inadeguati. Inoltre, molti erano ancora convinti dell’impossibilità dell’acqua di mare di congelare, neppure alle temperature più estreme. Tra la fine del Cinquecento e i primi anni del Seicento, è vero, l’esploratore inglese John Davis era entrato nello stretto di Cumberland, Henry Hudson aveva scoperto la baia omonima, mentre poco più tardi William Baffin, nel tentativo di scovare il famigerato Passaggio, aveva costeggiato le lugubri coste dell’isola a lui poi intitolata. Tuttavia nessuno si era spinto al di sopra del 77° parallelo nord e ogni altra spedizione nei successivi due secoli si era rivelata vana. I primi anni dell’Ottocento e la rivoluzione industriale segnarono però un punto di svolta: le nuove tecnologie promettevano risultati fino ad allora impensabili e gli interessi del mondo occidentale eccitavano irresistibilmente gli animi degli uomini più impavidi, alimentando sogni di gloria. Nel 1818 l’esplorazione condotta dagli inglesi John Ross e William Edward Parry non riscosse risultati significativi, anche se li condusse fin oltre lo stretto di Lancaster; una decina di anni più tardi, Ross intraprese una seconda spedizione assieme al nipote James e raggiunse la penisola di Boothia, ossia l’estremità settentrionale del continente nordamericano, ma la loro avventura prese una brutta piega allorché i ghiacci imprigionarono la nave. I due si spinsero allora sulla banchisa fino a toccare l’isola di re Guglielmo, ma, stremati, dovettero riprendere la via del ritorno con le poche slitte rimaste, finché furono salvati da una baleniera inoltratasi nello stretto di Lancaster e poterono così rientrare in patria, ben quattro anni dopo la loro partenza. Parry, dal canto suo, tra il 1819 e l’anno successivo portò due navi fino all’isola di Banks (a 73° Nord), ma ancora una volta la banchisa rese impossibile ogni ulteriore avanzamento.

Nel 1845 parte la spedizione più grande: 2 velieri e 134 uomini

Nel maggio del 1821, Parry ci provò ancora, ma questa volta i ghiacci bloccarono molto più a sud la Hecla e la Fury in una morsa che si sciolse solo nove mesi più tardi, rendendo la nuova avventura del tutto infruttuosa, se non per l’aver permesso di approfondire la conoscenza del popolo Inuit. Venne allora il momento di John Franklin, ufficiale, navigatore ed esploratore di grande esperienza, che già nel 1818, all’epoca trentaduenne, aveva guidato una sfortunata spedizione nel Mare Artico, con l’obbiettivo di raggiungere il Polo Nord partendo dalle isole Svalbard; il pack si era però rivelato un ostacolo insormontabile. Di animo indomito, sir John l’anno successivo si era nuovamente imbarcato per un’esplorazione delle coste settentrionali del Canada attraversando lo stretto di Davis, ossia il braccio di mare tra la Groenlandia e lo stretto di Baffin, ma anche in quel caso le forze della natura avevano avuto la meglio causando la morte per stenti della metà dell’equipaggio. Nel 1825, Franklin aveva esplorato con maggior successo le coste dell’Alaska, all’epoca ancora parte dell’impero russo, e il mare di Beaufort.
Nel 1845, infine, il governo britannico decise di inviare la più grande spedizione mai equipaggiata affinché individuasse finalmente l’agognato Passaggio a Nord-Ovest: a capo della missione fu posto proprio sir Franklin, sebbene all’epoca avesse già 59 anni. I velieri Erebus e Terror (gli stessi utilizzati da Ross cinque anni prima e dotati di due motori a vapore) salparono da Londra il 19 maggio con 134 uomini a bordo, viveri per tre anni e una ricca documentazione derivata dai precedenti tentativi. Le navi furono avvistate, l’ultima volta, nella baia di Baffin il 26 luglio successivo, da due baleniere di passaggio; il seguito della tragica avventura è ancora oggi in gran parte avvolta dal mistero. Le scarne informazioni si devono per lo più ai rapporti delle tante spedizioni di soccorso promosse negli anni seguenti (pur senza esito positivo) soprattutto grazie alla caparbietà di lady Jane Griffin, moglie dello sfortunato Franklin. Da un diario di viaggio, rinvenuto anni dopo presso una tribù di Eschimesi, si apprese che la Erebus e la Terror erano riuscite ad approdare sulla remota isola-penisola di Beechey, dove gli uomini avevano trascorso l’inverno (e dove tre di essi furono sepolti); nella tarda primavera del 1846 avevano ripreso la rotta verso nord, per finire successivamente, riscendendo verso sud, imprigionate dai ghiacci tra l’isola Victoria e l’isola di re Guglielmo, situata circa a metà del Passaggio.

Freddo, denutrizione, e malattie uccisero tutti i membri dell’equipaggio

Ben presto la denutrizione, il freddo, la tubercolosi e lo scorbuto presero a mietere vittime e, uno dopo l’altro, morirono una ventina di marinai e lo stesso Franklin, deceduto l’11 giugno 1847. I sopravvissuti, incredibilmente, abbandonarono le navi solo nell’aprile del 1848 e tentarono di accamparsi sull’isola di re Guglielmo per poi spingersi a sud, marciando nella tundra; finirono per perdersi in questa landa desolata, dove morirono tutti – entro la fine del 1850 – di stenti e avvelenamento da piombo. Si scoprì infatti solo nel 1981, a seguito delle autopsie fatte sulle salme dei tre marinai sepolti a Beechey, che il vincitore dell’appalto per le scorte alimentari della spedizione aveva malamente sigillato con troppo piombo le 8000 scatole di cibo caricate a bordo causando la contaminazione dei viveri. A tutt’oggi, i resti di Franklin e del suo equipaggio non sono mai stati rinvenuti. Il Passaggio a Nord Ovest venne infine individuato nel 1906 dall’esploratore norvegese Roald Amundsen; per una tragica ironia del destino, tuttavia, fu presto evidente l’impossibilità di utilizzare la rotta dal punto di vista commerciale, sia per la tortuosità e lunghezza del percorso, sia per l’onnipresenza degli iceberg, sia per la scarsa profondità dei fondali, tale da impedire il passaggio delle navi mercantili. L’epopea legata alla ricerca del Passaggio resta forse il più eroico capitolo nella storia dell’esplorazione umana e della marineria.

Testo di Fabio Bourbon, pubblicato sul numero 76 di Arte Navale. Su gentile concessione della rivista Arte Navale. Le immagini sono pubblicate su gentile concessione della rivista Arte Navale. E’ fatto divieto per chiunque di riprodurre da mareonline.it qualsiasi immagine se non previa autorizzazione direttamente espressa dall’autore delle immagini al quale spettano tutte le facoltà accordate dalla legge sul diritto d’autore, quali i diritti di utilizzazione economica e quelli morali.

pubblicato il 6 Gennaio 2022 da admin | in Storie | tag: Amundsen, Arte Navale, Erebus, Fabio Bourbon, John Franklin, Maledetto passaggio a Nord ovest, passaggio a Nord Ovest, Terror | commenti: 1
  • Pierluigi ha detto:
    16 Agosto 2018 alle 15:54

    Ormai sappiamo della causa della tragica morte di tutti gli equipaggi delle due navi. Vorrei, però, aggiungere una notizia che non trovo in questo sito: non è vero che i resti di tutti i marinai “non sono mai stati rinvenuti”, infatti la salma congelata di uno dei marinai venne ritrovata, perfettamente integra e vestita, sotto un cumulo di pietre cementate dal ghiaccio: capelli rossicci e tipica maglia a righe orizzontali bianche/azzurre. La grande pietà dei superstiti anch’essi intossicati !!!

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