Carlo Borlenghi da Bellano (Lago di Como), 51 anni, fotografo. A dirla tutta, uno dei migliori fotografi al mondo di barche, mare, vele, regate, e col termine “migliori” si intende una pattuglia che non riempie le dita di due mani. Decidiamo di giocare a una intervista “fotografica”. Fatta di scatti rapidi, di attimi. Senza tante lungaggini. Fotogrammi di carriera. Non un film. A proposito. Ti occupi di immagini da una vita, non hai mai pensato di sperimentare il documentario, il cinema, il movimento? “Certo. Ci penso da anni. All’inizio di ogni stagione, più o meno di questi tempi, mi propongo di cominciare. Poi il lavoro ha il sopravvento. E rimando”. Ma prima o poi… “Spero prima che poi, vorrei provare a unire film e foto, e trovare una sintesi che comunichi in modo nuovo”. Perché il segreto di Borlenghi è innovare, innovare, innovare. O no? “Il primo segreto, non solo per Borlenghi, è avere avuto un buon maestro. Eppoi, crescendo, metterci sempre della fantasia, del nuovo”. Nome e cognome del tuo maestro? “Giancarlo Vitali, pittore di Bellano. Grande artista e grande uomo”.
Metodo di insegnamento? “Gli portavo le mie foto stampate 30 per 40. Lui le guardava, prendeva le forbici, ne tagliava un pezzettino, un dettaglio, e mi diceva: “La foto che dovevi fare era questa. Il resto è inutile”. Risultato? “Mi ha insegnato il senso dell’inquadratura, l’estetica dell’immagine. E mi ha anche insegnato che in questo mestiere, come in tanti altri, si deve capire che c’è molto da imparare”. E tu come le prendevi queste sforbiciate? “Come una lezione. Se tornavo a casa con un quadratino di pochi centimetri ci rimanevo un po’ male. Ma a volte mi restituiva un pezzo delle dimensioni di una cartolina, e capivo di avere fatto un passo avanti.Ma al di là dell’insegnamento, il dono di un maestro come Vitali è stato anche un altro”. Quale? “Il tempo. Quando sei giovane e devi imparare, trovare qualcuno che ti dia tempo, ti sappia ascoltare, si prenda cura dei tuoi entusiasmi e dei tuoi problemi è un aiuto straordinario. Con Vitali bastavano due bicchieri di vino per creare l’atmosfera giusta, andare avanti, crescere”.
La tua prima foto “vera”? “L’immagine dell’imbarcazione Brava rovesciata, alle regate invernali di Alassio nel 1979. Avevo 23 anni”. Fu quella la svolta che ti fece abbandonare gli studi al Politecnico? “La svolta fu l’offerta che mi fece Uomo Mare, supplemento di Uomo Vogue. Il direttore, Giancarlo Scalfati, mi chiese di collaborare in maniera continuativa. Così rinunciai agli studi di ingegneria idraulica”. Ma tu già fotografavi? “Era il mio hobby. Avevo la camera oscura. Mi piaceva il bianco e nero. Come macchina usavo la Rolleiflex di mio padre Andrea. E siccome tutti i miei amici andavano in barca e facevano regate sul lago, il mio soggetto preferito divennero le barche. Con dispiacere proprio di Vitali”. Come mai? “Mi ha sempre detto che avrei dovuto dedicarmi a qualcosa più legato al mondo dell’estetica, dell’arte. Mi rimproverava perché continuavo, diceva, “a fotografare quelle barche di m…”. Sei pentito di questa specializzazione? “No. Sono le barche che mi hanno permesso di uscire dal guscio, girare il mondo, conoscere tante realtà nuove.
E mi danno la possibilità di fotografare anche tutto quello che interessa solo me, come la pesca con il cormorano in Cina, o altre stravaganze del genere”. Ma è vero che sei diventato fotografo anche per merito di tuo fratello? “In un certo senso sì: è Luciano che mi ha salvato. Mio padre voleva che prendessi in mano l’azienda di famiglia, che produceva impianti idraulici e di riscaldamento. Per quello ero finito al Politecnico. Quando scelsi la fotografia, mio fratello, che studiava medicina, abbandonò camice e bisturi per prendere il mio posto nei progetti di mio padre. Questo ridusse di molto delusioni e dispiaceri che, in una casa, accompagnano a volte queste decisioni”. Torniamo ai tuoi esordi. Quale fu il tuo primo lavoro per Scalfati? “Fu un servizio sul cantiere Ferretti, che presentava un suo nuovo motorsailer. Fu allora che conobbi i fratelli Ferretti”. E la prima macchina? “Acquistai una Canon, e da allora lavoro con Canon. Credo che sia automatico, quando si inizia con una macchina e ci si trova bene, proseguire con quella marca”. Dipendesse da te, bianco e nero o colore? “Bianco e nero. Assolutamente bianco e nero”. Anche per il mare, le barche, le vele? “Soprattutto. Ma si deve anche mangiare”. Cioè? “Nel 1981 realizzai un mio calendario, 140 Immagini di vele ottenute con alcuni tovaglioli durante un pranzo in Tasmania, con alcuni raccoglitori per documenti e con i tetti di un supermercato inglese. Lo presentai al Salone di Genova. Ne vendetti forse dieci copie. Fu un insuccesso totale. L’ho regalato ai cantieri, alle agenzie di pubblicità. Da loro è stato apprezzato, ma il mercato è un’altra cosa. Anche se non mancano le sorprese”.
La sorpresa che ti ha sorpreso di più? “Un giorno sono a Rio de Janeiro per la Volvo Ocean Race. Sul salvaschermo del mio computer girano mie foto in bianco e nero piuttosto ermetiche, dedicate a “cose” a forma di vela che non sono vele. Passa Alberto Lonardi della Volvo, si ferma, le guarda. Il tempo di tornare tutti e due in Italia e ne è nato un libro che amo molto. Ma i Lonardi in circolazione, credimi, non sono tanti”. Quali margini di creatività ha un fotografo come te nel lavoro industriale? “Dipende dal cliente. Prendi Rolex. Con loro faccio un lavoro stabilito a inizio anno. C’è una riunione per fissare le strategie, poi sei libero. Magari in qualche immagine dai un po’ d’enfasi al marchio. È naturale. Ma sei libero. Così con Prada o con ACM, America’s Cup Management, per Coppa America. Sono clienti interessanti. Tu impari dal loro stile, loro imparano dal tuo”.
Ma tu lavori molto anche per i cantieri. Cosa cambia? “Cambia, cambia. Tutti i cantieri, più o meno, si copiano. Per il 90 per cento tu devi fare vedere il prodotto, e i canoni sono quelli: allungare la barca, dare l’idea di eterna vacanza, di lusso, di benessere, e via così”. C’è differenza tra vela e motore? “Nessuna. Nella barca a vela, in più, non devi dare l’idea di sbandamenti troppo accentuati. “Non capisci ma ti adegui? Capisco, naturalmente capisco. Però mi chiedo perché non si provi anche qualche nuova strada. Ferretti, col bianco e nero di “essere Ferretti”, ha fatto qualcosina. Io cerco sempre di inserire qualche proposta, qualche idea nuova. Mal che vada va a finire tra le immagini non utilizzate”.
Tra le tue invenzioni ci sono le fotografie scattate tra le onde, praticamente sott’acqua, con effetti davvero straordinari. “Nel cercare qualche idea nuova ho inventato questo tubo alla cui estremità c’è la macchina fotografica. Lo manovro dalla barca. I risultati mi sembrano davvero buoni”. Quindi non scendi in acqua… “Come potrei? Non so nuotare. Per questo ho inventato questo marchingegno. Tra l’altro, se fossi in acqua non potrei più seguire le regate. Ora che scendi, scatti, risali, ti cambi, sai quanto tempo perdi?”. E come fai a sapere quando è il momento di scattare? “Quando vedo nel Dom, la calotta che protegge la macchina dall’acqua, il riflesso dell’immagine che mi piace. Puoi dire che lavoro letteralmente di riflessi…”. Una delle più belle regate? “La Rolex Middle Sea Race che in quattro giorni, soprattutto attorno a Stromboli, mi ha fatto vedere tutti i possibili fenomeni atmosferici: trombe marine, arcobaleni, venti a 50 nodi”.
Regate d’altura o bastoni? “Le regate d’altura hanno più fascino. Vedi davvero il mare. I bastoni e i triangoli sono cose un po’ da signorine”. Il tuo rapporto con il digitale? “Splendido. Sono stato tra i primi ad adottarlo. Ci ho creduto dal principio. Mi sono avvicinato con cautela perché non capivo niente di computer e di tecnologia. Ho fatto un po’ di fatica all’inizio. Ma valeva la pena. Quando comparve era un periodo di recessione. Con il digitale potevi soddisfare gli sponsor spedendo immagini molto più rapidamente che non con il sistema dei rullini in “fuori sacco”. Mi trovai a essere tra i pochissimi a potere garantire agli sponsor di raggiungere i quotidiani in tempo per l’uscita del giorno dopo. Ci mettevi una vita, col telefono, ma ce la facevi. Era una rivoluzione. Così, mentre gli altri andavano in crisi, io aumentai il lavoro”. È storia di appena una decina di anni fa, ma allora si trattò anche di fare forti investimenti. “La prima digitale mi costò 24 milioni di lire. Una cifra incredibilmente alta. E la definizione era proprio modesta. Poi ti appioppavano anche servizi e tecnologie tarocco, che non potevi neppure utilizzare. Ma considerai che fosse un gioco obbligato, come poi è stato”. La tua digitale di oggi? “Canon 1 DS Mark 3, 22 milioni di pixel di definizione, con card da 16 giga”.
Ma il digitale non appiattisce la professionalità, non rende tutti fotografi? “Errore! Una volta la qualità del fotografo la vedevi in camera oscura. Oggi la vedi nella post produzione. Lavorare su una foto, pulirla, dare profondità ai colori, portarla alla perfezione: tutto questo richiede molta capacità e grandi investimenti. A volte i clienti non lo capiscono. Ma è la post produzione che fa la differenza. Eppoi il digitale, proprio perché crea l’illusione della fotografia facile, rende ancora più importante la ricerca di immagini nuove, l’esercizio di una personalità. E la creatività, come la personalità, sono merci che restano rare”. Col risultato che i fotografi del tuo livello lavorano tantissimo…
Testo di Giuseppe Meroni, pubblicato sul numero 47 di Arte Navale. Su gentile concessione della rivista Arte Navale. Le immagini di Carlo Borlenghi sono pubblicate su gentile concessione della rivista Arte Navale. E’ fatto divieto per chiunque di riprodurre da mareonline.it qualsiasi immagine se non previa autorizzazione direttamente espressa dall’autore delle immagini al quale spettano tutte le facoltà accordate dalla legge sul diritto d’autore, quali i diritti di utilizzazione economica e quelli morali.
pubblicato il 1 Settembre 2018 da admin | in | tag: Alberto Lonardi, America’s Cup Management, Carlo Borlenghi, Giancarlo Scalfati, Giancarlo Vitali, Giuseppe Meroni, Uomo Vogue | commenti: 1
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