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Dhow, le opere d’arte galleggianti
costruite in spiaggia senza progetti

Da millenni le barche arabe solcano le acque del Golfo Persico per trasportare merci e persone dal Medio Oriente in Africa e India. Sull’isola più grande del Golfo Persico, Qeshm, ancora oggi vengono costruite imbarcazioni in tutto simili a quelle di un tempo. I maggiori cantieri si trovano sul lato settentrionale dell’isola, quello rivolto verso l’Iran, del quale Qeshm fa parte. Le imbarcazioni prendono forma direttamente sulla spiaggia. Il legno d’abete rosso e bianco, oggi proveniente prevalentemente dalla Russia, è alla base della lavorazione. Gli strumenti di lavoro sono arcaici. Pochi utensili e pochi uomini, grazie alle conoscenze e all’esperienza accumulate da generazioni di costruttori, sono in grado di portare a termine l’impresa. Dhow è una parola che deriva dall’arabo dau e significa semplicemente barca, battello o nave. Nel corso dei secoli le forme di queste imbarcazioni si sono evolute e sono cambiate,
dando origine a diverse varianti che tuttavia mantengono uno stile comune. Pur essendo tutto pontato, il dhow classico è privo di cabine e raggiunge dimensioni che variano dai 15 ai 60 metri. In alcuni modelli si possono riconoscere linee prese in prestito dagli schooner e dai cutter portoghesi e inglesi dei secoli scorsi, quando queste due potenze marittime si contendevano le acque strategicamente importanti dello stretto di Hormuz (l’isola di Hormuz è oggi è priva d’importanza ed è ben visibile da alcuni cantieri). I dhow, vere opere d’arte della cultura marinara, hanno segnato la storia della navigazione del mondo arabo. Il loro utilizzo risale già ad almeno quattromila anni fa, quando i sudditi del regno di Magan, l’odierno sultanato dell’Oman, risalivano il Golfo Persico per approvvigionarsi di lana, olio e cereali. A detta di alcuni studiosi, i dhow più tradizionali sono addirittura un’evoluzione delle imbarcazioni che usavano i Sumeri. In ogni caso se ne trova traccia certa nel VII sec a. C., con il regno di Himyar, poi unitosi a quello di Saba. In tutto questo straordinario arco di tempo la loro linea è rimasta immutata, con la tipica prua bassa e prolungata e la poppa alta che danno vita a una linea molto elegante. Le tecniche di costruzione si diffusero con il tempo in tutti i paesi dell’area, sulle coste orientali dell’Africa, a Zanzibar e fin sul versante occidentale dell’India.

A bordo dei dhow gli arabi hanno navigato fino all’Africa e alla Cina

I dhow navigavano dal Mar Rosso fino all’Oceano Indiano e dal Madagascar fino al Golfo di Bengala. Fino ad un’epoca molto recente, in pratica fino agli Anni 60 del secolo scorso, essi sono stati impiegati per viaggi commerciali tra il Golfo Persico e l’Africa orientale, continuando a usare le vele come unico mezzo di propulsione, utilizzando il monsone per spingersi verso sud in inverno o all’inizio della primavera, e per tornare in Arabia nella tarda primavera o all’inizio dell’estate. Nelle loro ampie stive trasportavano principalmente palme da dattero e pesce nei viaggi verso l’Africa, legno di mangrovia sulla via del ritorno. Oggi sono poche le barche che navigano ancora con le vele triangolari latine, («alla trina», cioè triangolari). A bordo di alcuni di questi scafi ancora in attività, è possibile ritrovare primitivi strumenti di navigazione tuttora usati dai comandanti. Furono gli arabi, come è noto, a inventare la navigazione astronomica. Non è un caso che molti degli astri abbiano proprio nomi arabi o derivati dalla lingua araba. Questi studi originarono anche la creazione di strumenti per meglio osservare il cielo. Il kamal, per esempio, è di fatto una sorta di sestante, utilissimo per determinare la latitudine, valutando l’angolo sotteso tra la Stella Polare e l’orizzonte. Il kamal è costituito da una tavoletta metallica oblunga. Ai bordi riporta alcune incisioni, corrispondenti a diverse stelle e a diversi intervalli di tempo. A un foro posto al centro è fissata una cordicella che presenta una serie di nodi. Tenendo la cordicella in bocca, in modo che possa scorrere pur restando tesa, il capitano allontana la tavoletta dal volto in modo da mantenere un punto di riferimento fisso sull’orizzonte, fino a far coincidere un’incisione, quella relativa alla stella e al tempo, sull’astro osservato. A questo punto, contando i nodi della cordicella, è in grado di determinare la latitudine a cui naviga. Assieme alla bussola, i comandanti dei dhow si affidano ancora oggi al kemal per meglio orientarsi nella navigazione notturna. Le pagine di storia e di leggenda legate ai dhow sono infinite. Lo stesso Simbad, il famosissimo navigatore delle Mille e una notte, solcava i mari d’oriente a bordo di una di queste barche.

Per secoli il fasciame di queste imbarcazioni è stato assemblato con fibra di cocco

Sui loro dhow gli arabi si sono spinti fino alle coste cinesi per fare carichi di seta, chiodi di garofano e incenso. Marco Polo, durante il suo peregrinare verso il Katay, l’odierna Cina, rimase impressionato dalle imbarcazioni arabe e ne annotò le caratteristiche nel Milione, descrivendo il curioso assemblaggio del fasciame, legato con fibra di cocco. Questa tecnica è rimasta invariata per molti secoli. La corda veniva fatta passare più volte nelle coppie di fori praticati orizzontalmente in modo da formare una orditura incrociata a X tra le varie giunture. Legatura e calafatura venivano eseguite contemporaneamente, impregnando la corda di una particolare resina di olio di pescecane. Le assi del fasciame erano fissate all’ossatura con chiodi di durissimo legno e assicurano una perfetta elasticità a tutta la struttura. Oggi i chiodi hanno sostituito le corde di cocco, ma sostanzialmente la realizzazione di un dhow è rimasta invariata anche nelle attrezzature impiegate: trapano ad arco, martello e sega. Nei cantieri di Qeshm vengono costruite diverse tipologie di imbarcazioni. Il tradizionale dhow da mare aperto, utilizzato come nave da trasporto, può raggiungere una lunghezza di 40 metri per una stazza di 500 tonnellate. La poppa è alta, molto decorata, mentre la lunga prua culmina in una testa a forma di clava. Il dritto di poppa, inclinato, supporta il grande timone, manovrato da una ruota tramite delle cime di cocco. La chiglia è profonda ed è destinata al trasporto merci, sia in stiva (essendo tutto pontato) che in coperta. Il castello di poppa, che talvolta si riduce a una tettoia, è usato per dormire e mangiare. Le imbarcazioni non hanno cabine; i bagni sono esterni e sono costituiti da un piccolo cubicolo di legno con un pavimento forato sporgente fuori bordo a poppa. I dati di stazza sono approssimativi, in quanto non si usano sistemi scientifici di valutazione. In realtà non si conoscono neppure le misure esatte della barca. Tuttavia la capacità di carico viene ancora oggi stimata con le due misure tradizionali: aste di mangrovia o, più a nord, in ceste di datteri.

La lunghezza di un dhow dipende solamente da quella della trave che determina la chiglia

Prima dell’avvento dei motori il dhow disponeva di uno o due alberi con vela latina, di cui quello a poppa inclinato all’indietro, all’opposto di quello di prua che è anche di maggiori dimensioni. A causa della pesantezza e delle forme tozze, un simile scafo non riesce a stringere il vento ed è pertanto dipendente per il suo spostamento dal regime dei monsoni. Un dhow tipico della zona è il sambuk o sambuz. Da queste imbarcazioni viene il nostro termine di «sambuchi», riferito alle barche arabe, mentre il suo nome deriva originariamente dall’arabo sabak, “veloce”. C’è poi il baghlah, baggarah o badan, una piccola barca lunga da 8 a 10 metri, adatta ai fondali poco profondi e utilizzata per la pesca. I disegni di questi scafi risalgono a un’epoca più recente e ricalcano gli schemi delle imbarcazioni del XVII secolo. Infine ecco il jaliboot o jalibut, evoluzione abbastanza recente di barche tradizionali. Il nome deriva dall’inglese jolly-boat, tipico naviglio usato dalla marina britannica per pattugliare le coste nella seconda metà del secolo scorso. Il maestro d’ascia all’interno di una di queste barche in costruzione si chiama Muhammad Shee. Lavora con piccoli colpi dell’ascia ricurva l’esterno del grezzo fasciame e lo scafo assume, come per magia, un aspetto liscio ed uniforme. La realizzazione di un dhow inizia senza che si conoscano in anticipo le dimensioni finali, almeno fino a quando non viene impostata la trave che determinerà la chiglia. Nel cantiere non esistono disegni. L’idea del risultato finale è tutto nella mente del capo costruttore, Hassan Farazad, che ha imparato il mestiere da suo padre e che costruisce barche da sempre. Per realizzare una barca la sua squadra impiega da nove mesi a due anni. I fattori che possono accelerare o rallentare l’opera sono molti, compreso il fatto che il committente abbia o meno il denaro per pagare le rate.

Un dhow di 40 metri con un motore da 700 cavalli costa circa 65mila euro

Un dhow da 40 metri costa, con un motore giapponese Yanmar da 700 HP incluso, 300 milioni di Rial iraniani, pari a circa 65mila euro. Di solito Hassan si fa pagare prima di iniziare i lavori, perché con quei soldi può finanziare l’acquisto del legname e dare da mangiare agli operai, oltre che la sua numerosa famiglia. Il capitano di un dhow è sovente anche il suo proprietario. In questa doppia funzione è responsabile della navigazione, ma anche degli affari. Tocca a lui, contrattare la vendita o il baratto delle mercanzie, oggi soprattutto sale, frutta secca, cemento, spezie, aste di mangrovia, tappeti, bauli, computer e altri prodotti hi-tech. Molti dhow sono coinvolti anche nel mercato nero, in quello della droga, degli immigrati clandestini e nella pirateria. Vengono regolarmente in contatto con le navi da guerra americane ed europee che da decenni si trovano qui per assicurare il flusso del petrolio e, più recentemente, per impedire il traffico illecito di armi. Ali Reza, uno di questi proprietari-comandanti, è un mercante iraniano di Qeshm che impiega i suoi dhow per l’import- export tra l’Iran e la penisola araba. Reza accompagna la merce di persona. Dalla sua base in Dubai, Paese membro degli Emirati Arabi Uniti, Reza esporta prodotti americani verso l’Iran, anche se la riesportazione è vietata dalle sanzioni imposte dagli Usa. Una volta svolte le procedure doganali i dhow stracolmi di merce salpano da Dubai per i porti iraniani di Bandar Abbas e Qeshm. In pochi giorni la merce è trasportata dall’isola di Qeshm alla terra ferma e venduta a Teheran e in altre città iraniane, dove il made in Usa è molto ricercato. Gli enormi dhow a motore prendono il largo in gruppi di tre quattro per proteggersi meglio dalle possibile aggressioni dei pirati. Il mercato nero si svolge così sotto gli occhi dei militari e in una delle zone più sorvegliate del mondo. I marinai americani non fermano le imbarcazioni che trasportano merce civile dal

L’introduzione della vetroresina sta facendo scomparire i dhow in legno

Dubai all’Iran, anche se questa nazione è sottoposta a sanzioni. Spiega il Tenente John Gay, portavoce della Quinta flotta degli Stati uniti con base a Bahrain: «Non è questa la nostra missione. Quando ci rendiamo conto che non si tratta di terroristi, i comandanti sono liberi di proseguire con la loro merce». L’arrivo dei motori e della vetroresina ha fatto sì che i dhow tradizionali, soprattutto quelli di grandi dimensioni, cominciassero a scomparire. Anche se utilizzate per le crociere in Kuwait e in Dubai, queste imbarcazioni non sembrano infatti adatte per il diporto dei ricchi abitanti dei Paesi arabi. Oggi la tradizione costruttiva continua, ma a ritmo ridotto, e solo nelle zone non ancora raggiunte dalla modernizzazione. Qualche romantico occidentale sta adattandoli al charter giornaliero. Qualcun altro, come Tim Severin, li usa per avventure personali. Tim, su un dhow dell’Oman costruito senza chiodi, ha navigato fino in Cina, dimostrando le qualità di una formula costruttiva tanto antica. Ma tra qualche decennio sarà forse possibile vedere solo in fotografia la barca di Simbad, marinaio per antonomasia. Presto molti dhow si affiancheranno a quegli ultimi esemplari che giacciono ormai accantonati nei vecchi porti, simili a scheletri di enormi animali preistorici, col fasciame sempre più corroso dalla salsedine.

Testo e foto di Hannes Schick, pubblicato sul numero 47 di Arte Navale. Su gentile concessione della rivista Arte Navale. È fatto divieto per chiunque di riprodurre da mareonline.it qualsiasi immagine se non previa autorizzazione direttamente espressa dall’autore delle immagini al quale spettano tutte le facoltà accordate dalla legge sul diritto d’autore, quali i diritti di utilizzazione economica e quelli morali.

pubblicato il 15 Giugno 2018 da admin | in | tag: kamal, Qeshm, Simbad | commenti: 0

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Commenti recenti
  • Roberto Ventrella 28 Febbraio 2023 at 21:16 su Al Polo Sud a vela? Il primo italiano
    a riuscirci è stato Giovanni Ajmone Cat
    Fiero d'essere italiano, napoletano e amante del mare. Grazie!
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