Il XIX secolo stava volgendo al termine. Il porto della capitale della Martinica, Saint-Pierre, dove le navi ormeggiavano a 50 metri dalla riva, era perennemente trafficato. L’acqua zampillava da innumerevoli fontane e riempiva le vasche da bagno dei privati. Alcuni quartieri avevano la corrente elettrica ed erano collegati tra loro da un tram a cavalli. Vi abitavano metà dei discendenti dei primi coloni europei (békés) e vi avevano la sede sociale undici dei quindici giornali dell’isola. Tutti impazzivano per la musica. La biguine, la regina delle danze, parente del bolero e influenzata dal jazz di New Orleans, il bel air e il damier, la kalenda, un ritmo africano ballato al suono dei tamburi. Il silenzio su Saint-Pierre calò, improvviso, nella primavera del 1902, dopo una drammatica eruzione della montagna Pelèe che la distrusse completamente. Trentamila morti in un minuto e mezzo, una sorta di Pompei dei Caraibi. I martinicani hanno ricostruito la città subito dopo l’eruzione e questo spiega perché gran parte dell’odierna Saint- Pierre, con i suoi balconi in ferro battuto e le porte a imposte, ha mantenuto un’atmosfera fin-de-siècle.
La città adesso si affaccia su una bella baia di sabbia nera. Alle spalle, con la testa perennemente avvolta dalle nuvole, l’imponente figura della Montagne Pelée, è diventata meta di intriganti randonnées. Ci sono percorsi buoni per qualsiasi tipo di gambe. I sentieri utilizzano ancora piccoli segmenti del vecchio tracciato stradale: tratti lastricati, tunnel, ponti in pietra e cartelli indicatori. Il gran numero di torrenti che attraversano i sentieri garantiscono una incredibile varietà di biotipi, ciascuno con caratteri ecologici specifici. Il gommier è una pianta che prospera sull’isola in due ‘versioni’: bianca e rossa.
Le due specie si differenziano solo per la loro corteccia: biancastra, liscia e brillante la prima; rossastra, più rugosa e screpolata per il gommier rouges (chiamato anche “albero dei turisti”, perché diventa rosso come i turisti sotto il sole tropicale). In entrambi i casi può essere molto grosso e alto. Il legno è compatto e non si fessura. Produce una resina che lo protegge dall’acqua di mare e ha un profumo molto simile all’incenso. Caratteristiche che lo rendevano particolarmente adatto alla costruzione di imbarcazioni. Una specificità ben conosciuta dagli indiani caribi, i nativi precolombiani, che ne ricavavano piroghe utilizzate per spostarsi tra le isole e per la pesca. Il tronco dell’albero, costituito da un’anima arrotolata e senza consistenza, veniva tagliato, scavato e reso malleabile con il calore del fuoco, quindi messo in forma con acqua e pietre. Purtroppo gli indiani caribi non sopravvissero a lungo all’arrivo degli europei. I pochi sopravvissuti agli scontri con i civilizzatori furono cacciati definitivamente dall’isola nel 1660. Il conflitto era impari e le opere di disboscamento intraprese dai coloni per l’inserimento delle piantagioni di canna da zucchero avevano reso insostenibile la convivenza. Barche simili alle loro, chiamate gommier proprio per la pianta che ne forniva la materia prima, continuarono (e continuano) a essere costruite, con le stesse tecniche e le stesse caratteristiche di un tempo.
A queste si affiancano oggi le yole-ronde, seconda tipologia d’imbarcazione autoctona delle acque della Martinica. Entrambe le barche sono lunghe dagli 8 ai 10 metri, hanno una vela rettangolare, con l’albero maestro in legno e il boma in bambù. L’equipaggio è composto da una decina di uomini. La differenza sta nel fatto che la yole non è scavata in un tronco, come il gommier, dispone di una pagaia ed è priva di deriva e timone. È una imbarcazione leggera senza chiglia, senza zavorra, dal basso pescaggio e in grado di issare anche due vele. Storicamente la yole-ronde, più affusolata e rapida, dotata di un fondo piatto che le consente di superare i banchi di sabbia, era utilizzate dai pescatori sottocosta, il gommier per praticare la pesca al largo. Ai giorni nostri la flotta delle yole-ronde è più importante di quella dei gommier, anche perché l’omonimo albero è ormai una pianta rara, in via di estinzione. Inoltre deve avere almeno un secolo di vita prima di essere abbattuto (l’Ufficio Nazionale delle Foreste della Martinica limita e controlla il taglio delle piante). Le prime regate non dichiarate cominciarono con la sfida sul mare delle piroghe, al ritorno dalla pesca nel porto della capitale. Sfide infrasettimanali che iniziarono a richiedere una rivincita domenicale, dopo la messa. Le gare trovarono il loro prolungamento nelle occasioni delle feste patronali, dove erano invitate anche le imbarcazioni dei comuni limitrofi.
Oggi in Martinica vengono organizzate una ventina di regate di yole-ronde, più qualche regata di gommier, ma l’avvenimento più seguito è il Tour des Yoles Rondes. Celebrato ogni anno a cavallo tra luglio e agosto, sta a un nativo della Martinica come il Tour de France sta a un francese. Non è solo una competizione sportiva, ma una sorta di marchio identitario. La gara prevede 7 regate (tappe) grazie alle quali si compie il periplo dell’isola. Tre o quattro ore di mare ogni giorno per stabilire il vincitore della tappa (maglia rossa). A vincere invece l’intero Tour (maglia verde) sarà l’imbarcazione che avrà totalizzato più punti sommando i risultati di tutte le tappe. Per gli altri concorrenti la liturgia impone di indossare una T-shirt dello stesso sgargiante colore, delle vele della sua barca. Vele che nel corso degli anni hanno aumentato la superficie fino a 100 metri quadrati e hanno sostituito il tradizionale cotone con nuovi tessuti (mylard, dacron). Questo fatto ha consentito agli isolani di gareggiare con colori particolarmente squillanti e melanges imprevedibili. Anche le dimensioni delle yole-ronde sono cambiate nel corso delle edizioni. Vi sono oggi tre classi veliche: Grande, Bebé e Mini di 10.50; 6,30 e 4 metri rispettivamente. Ogni località rilevante dell’isola partecipa al tour con una o più imbarcazioni. Queste possono arrivare a costare anche 50mila euro, ma una sapiente vendita degli spazi pubblicitari su scafo e vela ripaga abbondantemente (gli sponsor possono arrivare a spendere sino a 90.000 euro). In totale le imbarcazioni in gara sono una ventina (nell’ultima edizione Robert ne aveva 6, François 5, Marin 2, Fort de France 1, Vauclin 2, Sainte Annè 1, Trinitè 8) e il palmares ci racconta che quelle maggiormente vincenti sono le yole-ronde di François: prime in 16 dei 25 Tour disputatisi sino a oggi. Le acque di regata, nei giorni di gara, presentano un traffico degno di quello di una metropoli nell’ora di punta. Piccoli battelli, bagnarole a fine carriera, lussuosi yacht, veloci gommoni, rumorose moto d’acqua: tutto è buono per avvicinarsi alla barca del cuore. Un tifo che si esterna percuotendo tamburi e cantando senza sosta. I più attrezzati hanno laute scorte di cibo e bevande, spesso incompatibili con lo stomaco di chi deve stare in mare per ore. Le radio trasmettono in diretta una sorta di “Tutto il Tour des Yoles Rondes minuto per minuto”. E alla sera le televisioni hanno palinsesti infarciti di immagini e interviste ai protagonisti della gara. Un consiglio: nascondete la nazionalità italiana o la battuta è scontata: «La nostra è la Ferrari delle yole-ronde».
Testo di Claudio Agostoni pubblicato sul numero 63 di Arte Navale del dicembre 2010 / gennaio 2011. Su gentile concessione della rivista Arte Navale.Le immagini sono pubblicate su gentile concessione della rivista Arte Navale. E’ fatto divieto per chiunque di riprodurre da mareonline.it qualsiasi immagine se non previa autorizzazione direttamente espressa dall’autore delle immagini al quale spettano tutte le facoltà accordate dalla legge sul diritto d’autore, quali i diritti di utilizzazione economica e quelli morali.
pubblicato il 19 Ottobre 2012 da admin | in | tag: Arte Navale, biguine, Claudio Agostoni, gommier, Martinica, montagna Pelèe, Pompei dei Caraibi, Saint-Pierre, yole-ronde | commenti: 0