“L’arte mi ha innalzato a un’altezza considerevole, ma non superiore alla .. misura di leva”, così scriveva di sé Attilio Pratella, ironizzando sulla sua bassa statura e nello stesso tempo prendendo le distanze da tanti suoi colleghi “boriosi e vanagloriosi”, che scambiavano “il successo momentaneo con la gloria eterna”. Egli amava la pittura e ripeteva spesso: “Nel mio cuore arde un fuoco sacro; ne faccio un gran consumo, ed ecco come: dalla legna arsa ricavo il carbone e la carbonella per disegnare le mie concezioni. Ho a disposizione per tale bisogna, tutta una foresta.” E ancora: “Mi sforzo di plasmare col colore la realtà delle cose, perché gli altri vedano quale dovrebbe essere il prototipo della mia pittura.” Attilio Pratella era nato il 19 aprile 1856 a Lugo, presso Ravenna. Suo padre, un commerciante, non ostacolò la sua passione per il disegno e così, dopo aver completato gli studi tecnici al collegio Trisi, si iscrisse all’accademia di Belle Arti di Bologna.
Qui conobbe Giovanni Pascoli, di cui illustrò il primo libro della raccolta di poesie Myricae, dimostrando già di possedere notevoli doti tecniche e un’acuta sensibilità poetica. Nel 1880 ottenne una borsa di studio di sessanta lire mensili per seguire un corso di perfezionamento all’Accademia di Napoli, sotto la guida di Domenico Morelli e Filippo Palizzi. Qui poté ammirare e studiare i paesaggi di Giuseppe De Nittis, come ad esempio la Strada da Barletta a Brindisi, esposta al Museo di Capodimonte, e decise di rivolgere la sua pittura alla natura, dove poteva esprimere, meglio che in altri soggetti, la sua sensibilità e la sua personalità. Un secondo incontro assai significativo sulla sua formazione pittorica fu quello con Edoardo Dalbono, che gli fece conoscere sia lo stile dei macchiaioli, sia le novità che si stavano sviluppando in quegli anni in Francia, da Jean-Baptiste Camille Corot a Gustave Courbet, dai pittori di Barbizon alle prime esperienze degli impressionisti.
Quando terminò il periodo garantito dalla borsa di studio, decise di non tornare in Romagna, affascinato dalle luci e dai colori del paesaggio campano. I primi anni di permanenza a Napoli furono molto difficili, perché riusciva a vendere pochi quadri e dovette compiere non pochi sacrifici, alloggiando in un ex-deposito di casse funebri a Poggioreale, limitando al massimo le spese personali e adattandosi a decorare delle porcellane per l’antiquario Varelli, in cambio di due lire al giorno. In seguito si accordò con il titolare della pasticceria Caflisch per dipingere vedute e paesaggi sui coperchi delle confezioni in legno per i confetti. Questa nuova occupazione gli diede la possibilità di migliorare la propria tecnica, di elaborare un proprio stile originale e personale e al tempo stesso attirò su di lui l’attenzione dei critici e degli appassionati d’arte, che riconobbero in quelle composizioni qualcosa di più delle solite bomboniere.
Egli riprese molti temi tipici della Scuola paesaggistica di Posillipo, ma seppe rinnovarli con brio e ironia, rendendo le sue creazioni sempre più vive e accattivanti. Erano molto apprezzate le scene popolari, dipinte con gusto garbato e delicato, le vedute dei vicoli o i piccoli interni, raffigurati con sentita partecipazione, senza retorica o falsi moralismi, ma quelle che ottennero i commenti più convinti furono le sue marine, così ricche di luce e intense nei colori. Ottenne allora un buon contratto con la fabbrica di porcellane Cacciapuoti e, tra i tanti lavori, riscosse un notevole successo con un piatto raffigurante il baritono romano Laici. Nel 1881 espose per la prima volta una Marina alla Promotrice; nel 1885 fu ammesso al Salon di Parigi, nel 1887 partecipò all’Esposizione Nazionale di Venezia, nel 1893 all’Esposizione Nazionale di Roma, nel 1894 alla Grande Esposizione d’Arte di Berlino e poi a Torino, Parigi, Leningrado, Milano, Barcellona, Buenos Aires e Monaco, mentre le sue ceramiche furono ammirate in una mostra ad Anversa. Tra il 1886 ed il 1887 ospitò Giuseppe Casciaro, di alcuni anni più giovane, con il quale si recava spesso in campagna per cercare nuovi soggetti da raffigurare dal vero. Nel 1887 sposò Nunzia Belmonte, figlia di un nobile patriota romano, ex garibaldino, dalla quale ebbe cinque figli, tre maschi e due femmine.
Gli ultimi anni dell’Ottocento segnarono la piena maturità artistica di Attilio Pratella e l’inizio del suo successo, tanto da essere considerato l’esponente più rappresentativo del cosiddetto Impressionismo napoletano. Sapeva infatti rendere i colori luminosi e vibranti e nell’organizzazione degli spazi curava con grande attenzione la disposizione delle masse, così da dare equilibrio all’intera composizione. I suoi personaggi erano raffigurati con straordinaria naturalezza e immediatezza. Per accontentare le numerose richieste dipinse molto, moltissimo, forse troppo e non sempre mantenne lo stesso livello qualitativo e la stessa freschezza emotiva. Egli trasmise la sua arte ai figli, che continuarono con altrettanto successo la sua attività, in particolare Fausto (1888-1964), Paolo (1892-1980) e Ada (1901-1929). Attilio Pratella morì a Napoli il 28 aprile 1949. Oggi le sue opere sono presenti nelle maggiori collezioni pubbliche e private e compaiono frequentemente nelle maggiori vendite all’asta.
Testo di Gabriele Crepaldi pubblicato sul numero 59 di Arte Navale. Su gentile concessione della rivista Arte Navale.Le immagini sono pubblicate su gentile concessione della rivista Arte Navale. E’ fatto divieto per chiunque di riprodurre da mareonline.it qualsiasi immagine se non previa autorizzazione direttamente espressa dall’autore delle immagini al quale spettano tutte le facoltà accordate dalla legge sul diritto d’autore, quali i diritti di utilizzazione economica e quelli morali.
pubblicato il 6 Novembre 2015 da admin | in Quadri | tag: Giovanni Pascoli, Giuseppe Casciaro, Giuseppe De Nittis, Impressionismo napoletano, Myricae, Nunzia Belmonte | commenti: 0