Il 24 aprile 1945 gli Alleati e i corpi partigiani entrarono a La Spezia. Lo spettacolo era desolante: una città quasi distrutta, con l’Arsenale ridotto a un cumulo di macerie, il porto inutilizzabile, le strade e le linee ferroviarie devastate. La necessità dei collegamenti rendeva indispensabile mettere subito mano alla riattivazione dei bacini portuali e l’incarico fu dato al Gruppo operativo recuperi istituito dalla Marina italiana e giunto a La Spezia al seguito delle forze alleate, alle dirette dipendenze del British Navy – Fleet Salvage. Il Gruppo, specializzato nello sgombero dei porti e dei relativi accessi, era composto da tre ufficiali del Genio navale, tre sottufficiali e una ventina di operai specializzati, una forza insufficiente per la mole e la complessità del lavoro che l’aspettava, tanto che fu ben presto potenziata con alcuni palombari e con altri operai assunti sul posto man mano che la città e i paesi vicini si ripopolavano.Il comando del gruppo fu affidato al tenente colonnello del Genio navale, Ciro Loffredo, “ufficiale tecnicamente preparatissimo, dotato di forte personalità, grande carisma e capacità di adattamento”. Qualità che si dimostrarono determinanti per portare a compimento un lavoro già difficile di per se stesso, ma reso ancora più arduo dall’assoluta inidoneità dei mezzi operativi a disposizione. Gli inglesi si erano infatti portati a Genova la maggior parte dei mezzi di lavoro disponibili perché tale porto sembrava più facilmente riattabile e soprattutto meglio sfruttabile nell’immediato da un punto di vista delle esigenze belliche. A La Spezia ci si trovò così, come si dice, a fare le nozze con i fichi secchi.
Ma non si trattava proprio di nozze e tanto meno di una festa. La situazione operativa è ben descritta dallo stesso Loffredo nella relazione scritta che presentò al compimento dei lavori alla fine di dicembre del 1947: “Sono note le condizioni in cui venne trovata la base che aveva subito oltre che le devastazioni causate dai bombardamenti alleati, le distruzioni ben più sistematiche e precise procurate dalle truppe germaniche in ritirata. Ogni opera militare era praticamente distrutta, l’Arsenale appariva un cumulo di macerie fra le quali oltremodo pericoloso era l’avventurarsi, le banchine erano sconvolte metro per metro, le dighe bloccate da un groviglio di scafi affondati ai passaggi e infine le acque del Golfo colme di ordigni esplosivi custodivano più di 300 relitti di navi grandi e piccole spezzate sul fondo. Le due darsene interne dell’Arsenale e il Porto mercantile apparivano come un desolato cimitero di navi, totalmente ingombri di relitti fra i quali a stento era possibile avventurarsi anche con natanti di piccolo tonnellaggio”.
Una situazione a dir poco drammatica! Dopo un’attenta ricognizione fu trovato un solo scafo incolume e galleggiante, il rimorchiatore Benvà che fu armato con alcuni volontari e utilizzato per le prime ispezioni nel Golfo. Bisognava intanto dotarsi di mezzi necessari per il lavoro, strumenti e macchinari vari, galleggianti e imbarcazioni e, infine, mezzi di spinta e di sollevamento. Nonostante le distruzioni l’Arsenale offriva ancora per fortuna la possibilità di effettuare riparazioni e in collaborazione con il Centro raccolta materiali si riuscì a reperire qualche mezzo utile, tra quelli abbandonati avariati o occultati da civili.
I primi sforzi furono indirizzati ad aprire almeno uno dei due passaggi della diga completamente ostruiti dai relitti. Si lavorò giorno e notte per tre settimane, finché il 23 maggio si riuscì a creare un primo passaggio largo 30 metri e profondo 10 al Passo di Ponente, permettendo così a due dragamine inglesi di entrare nel Golfo e iniziare la bonifica delle mine acustiche ed elettromagnetiche che infestavano le acque. Contemporaneamente, i palombari in forza al Gruppo procedevano a prosciugare i pozzi di aspirazione di due bacini dell’Arsenale, quelli che apparvero in condizioni migliori. Era un lavoro assai pericoloso per la presenza di mine inesplose poste in sito dai tedeschi per rendere inutilizzabili i bacini; ciò nonostante, con perizia, audacia e sprezzo del pericolo, il lavoro fu portato a termine entro il 27 maggio. “E poiché nel frattempo Maricost aveva provveduto alla rimessa in efficienza di un’elettropompa di 3.500 tonnellate, poteva ottenersi l’immediata utilizzazione dei due bacini grandi ed attorno a questi l’Arsenale”, scrive Loffredo con una certa emozione, “poteva riprendere i primi palpiti di vita e di lavoro che dovevano in seguito progressivamente intensificarsi”. Su richiesta del Comando Arsenale furono a questo punto recuperati alcuni natanti ausiliari necessari per i rifornimenti della base di Portovenere, dove allora trovavano ormeggio le navi. Il bacino numero 5 dell’Arsenale era ormai prosciugato e poteva riprendere i normali cicli di lavoro. I palombari intanto effettuavano la sistematica ispezione delle acque del Golfo per individuare gli scafi affondati e valutarne le condizioni.
Su espressa indicazione del Ministero, bisognava determinare la convenienza economica del recupero di ogni naviglio o non piuttosto la sua demolizione. Il 14 giugno i lavori furono però turbati da un evento luttuoso: il rimorchiatore Bonvà saltava in aria su una mina acustica con tutto l’equipaggio. Morirono cinque uomini. Fu in questa occasione che gli uomini del Gruppo dimostrarono il loro grande senso del dovere e di responsabilità per la missione che stavano svolgendo continuando con rabbia la loro attività. Una missione, più che un lavoro. In agosto furono brillantemente recuperati i pontoni Zonza e Anteo, un’operazione che dette un grande impulso ai lavori perché con questi importanti mezzi di sollevamento era assicurata la possibilità di rimettere in galleggiamento innumerevoli piccoli natanti. In poco più di due mesi, da agosto a ottobre, furono così recuperati e riattati 14 natanti ausiliari di vario tipo con il risultato di sgomberare completamente l’interno del molo San Cipriano al Porto Mercantile e di permettervi l’approdo di piroscafi di piccolo tonnellaggio. In pratica venivano riallacciate le comunicazioni con l’esterno. “Riprendeva la vita effettiva”, scriveva Loffredo, “se pur limitata”. I lavori procedevano ora abbastanza speditamente, anche se ci furono da risolvere alcuni casi particolarmente complessi. È il caso del recupero del piroscafo Alma, di 700 tonnellate, affondato parallelamente al molo Duca degli Abruzzi, in pessime condizioni. Le autorità locali premevano per questa rimozione perché avrebbe permesso la riutilizzazione “dell’unica banchina del Porto Mercantile dotata di mezzi meccanici di sollevamento e di fondali sufficienti per permettere l’attracco dei piroscafi di tipo Liberty”. Ma nonostante l’impegno del Gruppo recuperi quasi al completo e all’ausilio del pontone Anteo, non si riusciva a riportare a galla il piroscafo. Le sue strutture divelte e contorte facevano presa sul fondo e per di più un braccio del pontone G.A, 83 si era precedentemente distaccato dal traliccio base andando a incastrarsi all’interno dello scafo nel punto in cui appoggiava sul fondo. Si dovette procedere alle cariche e al taglio subacqueo e anche in questa occasione fu grazie alla perizia e al coraggio del capo palombaro Nardini se si poté venirne a capo. “Dopo poco più di un anno di lavoro”, scriveva con orgoglio Loffredo, “i principali obiettivi apparivano raggiunti; l’accesso al Golfo era possibile attraverso un varco ampiamente sufficiente, il Porto Mercantile era totalmente sgombro, le due darsene dell’Arsenale con quasi tutti gli approdi e le banchine utilizzabili, e la Base con diecine e diecine di natanti già ripristinati poteva riprendere in pieno la sua funzione”. Il lavoro di emergenza era finito, quello normale proseguiva con sicurezza.
Alla fine del 1947 il tenente colonnello Ciro Loffredo poteva tirare le conclusioni del lavoro brillantemente svolto: “In circa trenta mesi di intenso lavoro eseguito specialmente nella fase iniziale, in condizioni difficili e pericolose, l’Ufficio ricuperi navi di La Spezia ha in sintesi realizzato quanto segue: a) Ha eseguito la ricerca e l’individuazione di tutti gli scafi affondati nel Golfo e nelle acque di giurisdizione (da Santa Margherita a Bocca di Magra), provvedendo a compilare i grafici illustrativi e le relative relazioni sulle loro condizioni, secondo le richieste di Maristat e Maricost Roma; b) Ha realizzato in condizioni di emergenza l’apertura di un varco di accesso del Golfo alla diga di Ponente …”. E così via, riportando con puntiglio e senza enfasi tutte le tappe di un lavoro difficile, spesso pericoloso e sempre massacrante svolto da un gruppo di uomini senza nome, che non appariranno mai nelle pagine della storia. Uomini senza nome, eroi oscuri che hanno contribuito alla seconda Liberazione di La Spezia e che hanno contribuito con la loro abnegazione alla ripresa della vita, a una nuova primavera, dopo l’oscuro inverno della guerra.
Testo di Riccardo Magrini pubblicato sul numero 52 di Arte Navale. Su gentile concessione della rivista Arte Navale. Le immagini dell’Archivio Loffredo sono pubblicate su gentile concessione della rivista Arte Navale. E’ fatto divieto per chiunque di riprodurre da mareonline.it qualsiasi immagine se non previa autorizzazione direttamente espressa dall’autore delle immagini al quale spettano tutte le facoltà accordate dalla legge sul diritto d’autore, quali i diritti di utilizzazione economica e quelli morali.
pubblicato il 25 Dicembre 2018 da admin | in Storie | tag: British Navy - Fleet Salvage, Ciro Loffredo, Maricost Roma, Maristat | commenti: 0