La grande nave passeggeri è stata spesso oggetto di accesi dibattiti da parte degli esteti, dei decoratori e degli architetti. E la sua duplice anima, di mezzo di trasporto e albergo galleggiante, con l’abbinamento di una miriade di discipline inerenti a tali funzioni, ha avuto difficoltà a trovare un punto d’incontro. Ci fu una fase iniziale, che va grosso modo dalla nascita del piroscafo (in origine un adattamento del grande veliero oceanico, come i celebri clipper a elica degli armatori liguri di fine Ottocento) alla prima decade del Novecento, nella quale l’arredo era lasciato alla tradizione del carpentiere navale che, nell’allestire le varie tughe in legno sui ponti, contenenti le sale di ritrovo dei passeggeri, provvedeva con lo stesso materiale a fornire tavoli, cassapanche e credenze dall’aspetto massiccio, spartano, anche scomodo, ma schiettamente e inconfondibilmente “navale”, immediatamente distinguibile da qualunque arredo di terraferma. La seconda fase coincise con l’arrivo dei giganti dei mari, che, concepiti alla vigilia della Grande Guerra, dominarono soprattutto gli Anni 20. Gli sforzi decorativi riguardavano ovviamente le classi superiori; superiori anche nella posizione, nel senso che occupavano i ponti alti, mentre per gli emigranti, stipati in cameroni nelle viscere della nave, non ci fu il minimo impegno architettonico o decorativo. Per rispondere a quello che era considerato lo stereotipo del gusto della nobiltà e dell’alta borghesia del tempo, i decoratori dei manieri dell’aristocrazia europea si impadronirono della grande nave. Era in effetti un’attività svilente: l’ingegnere navale progettava in totale autonomia spazi e strutture di bordo e poi, a giochi fatti, un’orda di falegnami, ebanisti e tappezzieri provvedeva a nascondere la struttura della nave ricoprendo e dissimulando ogni elemento che potesse ricordare anche lontanamente il trovarsi a bordo di un bastimento. Vigeva il dogma che andar per mare era sempre una necessità e mai un piacere e che un passeggero ipnotizzato da ambienti tipici della terra ferma si trovasse tanto più a suo agio quanto potesse allontanare dalla sua mente il ricordo di essere in balia di un oceano indomabile. L’ospite, forse ignaro di tale strategia e un po’ stordito, avrebbe subito per molti anni questa effimera illusione da nababbo che gli era offerta nel prezzo del biglietto e che costringeva nel modulo tirannico della struttura navale tutta la prodigiosa arte dei grandi secoli, oltremodo imbastardita dal melange incoerente con cui gli stili storici venivano rivisitati in un’orgia decorativa senza precedenti: non bastavano il gotico francese, il barocco veneziano, il manierismo inglese e il rinascimento fiorentino piegati a forza dentro allo stesso salone; elementi assiro-babilonesi, delle antiche Cina, India e Grecia troneggiavano qua e là creando sbigottimento e un certo torpore all’ospite. Tedeschi e francesi furono i primi a ribellarsi a questa consuetudine decorativa, cercando nella seconda metà degli Anni 20 un linguaggio proprio nell’architettare la nave, mentre i britannici, di natura conservatrice, non ci pensarono quasi a infrangere le tradizioni.
L’Italia, dove il ritardo industriale rispetto agli altri stati occidentali aveva posticipato la corsa al gigantismo dei transatlantici, si inserì in ritardo nel dibattito sulla valenza estetica e figurativa della grande nave di linea, ma grazie alle avanguardie, che esaltarono il mezzo di trasporto e la velocità come fenomeni di “nuova arte”, alla fine degli Anni 20 avrebbe dato un contributo decisivo nello stabilire dei canoni architettonici e decorativi per la moderna nave di linea. La discussione sull’arredo navale che avrebbe infervorato architetti ed esteti nel decennio che precedette la seconda guerra mondiale, era ormai stata pienamente recepita nel dopoguerra grazie a designer del calibro del triestino Gustavo Pultizer Finali che, con unità quali Victoria (1931), Conte di Savoia (1932), Neptunia (1933) e Calitea (1936), aveva esportato lo stile Novecento nel mondo, decretandone un successo celebrato da Gio Ponti dalle pagine della sua rivista ‘Domus’. Dal numero del febbraio 1929 Roberto Papini tuonava: “Fra la decorazione e il mobilio d’un castello trecentesco o d’un padiglione barocchetto commercialmente e banalmente riprodotti in una nave ad uso e consumo dei pescicani naviganti, e il nitido, sobrio, ragionato arredamento moderno il passo è lungo. Rinunciamo pure in un primo tempo ad una corrispondenza troppo rigida e consequenziale fra l’interno e l’esterno di un piroscafo, ma se questo deve sembrare, a chi v’abita, una casa, sia almeno una casa moderna e non antica, del tempo cioè delle caravelle e delle galere”. L’affondo era rivolto in particolare al Conte Grande, varato a Trieste pochi mesi prima per il Lloyd Sabaudo, di uno stile kitsch indescrivibile, una sorta di “frullato” di interpretazioni stilistiche storiche e orientaleggianti frutto della mente di Armando Brasini e Aldolfo Coppedé, che, dato che era impossibile spingere oltre il limite dell’iperdecorativismo voluto dalla società armatrice, si misero l’anima in pace nel cercare quanto di gusto anche pessimo si potesse ancora offrire per accontentarli. Come scrisse nel 1948 lo stesso Pulitzer Finali, “il decoratore sembrava adattarsi solo di malavoglia alle necessità costruttive e alle esigenze della sicurezza e dei servizi. L’ingegnere navale assisteva da lontano con curiosità, con sorpresa e forse con un sottile sorriso di commiserazione, ai voli dell’indisciplinata fantasia del collega di terraferma, così estranei alla ben ordinata e ben costrutta orditura del suo scafo […]. Poi l’ingegnere navale e il creatore degli interni si accorsero un bel giorno che stavano parlando lo stesso linguaggio e che le loro strade, tanto diverse, incominciavano a correre parallele e in perfetto accordo. L’ingegnere meccanico aveva cominciato a uscire qualche volte dall’arida astrazione dei suoi calcoli e ad avventurarsi decisamente nel campo dell’estetica. La bellezza formale del prodotto meccanico (dalla locomotiva alla macchina da scrivere), quella che la convenzione popolare chiama sommariamente forma aerodinamica o funzionale, era ormai generalmente accettata quale elemento essenziale di qualità e quindi di successo. I contatti tra ingegneri e artisti diventarono sempre più frequenti”. Quella raccontata da Pulitzer Finali era un’esperienza personale, che lo aveva portato al successo internazionale. Negli Anni 30, infatti, l’ingegnere a capo dell’ufficio tecnico dei cantieri navali giuliani era Nicolò Costanzi, egli stesso artista per diletto e progettista di alcuni interni minori, il cui motto, nel disegnare alcune delle più belle unità di linea italiane dagli Anni 30 agliAnni 60, era sempre stato “la funzionalità non è mai una scusa per il brutto”. Le competenze tecnico-navali del Pulitzer e quelle decorative del Costanzi costituiscono uno dei migliori esempi di progettazione univoca, in cui ingegnere ed architetto parlano lo stesso linguaggio, nella continuità estetica tra linea esterna e arredamento interno che tanto aveva auspicato Roberto Papini. Pulitzer, rientrato in Italia dopo un confino obbligato di molti anni (in quanto ebreo si era dovuto rifugiare negli Stati Uniti allo scoppio del conflitto), portò con sé l’ulteriore preziosa esperienza di progettista navale che si era fatto a New York, lavorando con Henry Dreyfuss, uno dei padri dell’industrial design americano. L’American Export Lines aveva affidato a Dreyfuss il progetto dei nuovi transatlantici Constitution e Independence ed egli chiese la collaborazione di Pulitzer, riconoscendogli un’indiscussa competenza nel settore dell’arredo di bordo. “Durante i miei anni di attività negli Stati Uniti ebbi occasione di incontrarmi con alcuni dei più importanti ingegneri navali”, avrebbe ricordato l’architetto triestino; “Non solo ammiravano ma conoscevano a fondo molti dei nostri più importanti transatlantici dell’anteguerra e ne tenevano le fotografie a un posto d’onore dei loro immensi uffici. Più di una volta mi avvenne di restare un po’ imbarazzato quando mi parlavano perfino di particolari di decorazioni che parevano conoscere meglio di me che le avevo disegnate tanti anni prima. Anche durante i difficili anni di guerra ho avuto frequenti occasioni di osservare come la genialità e l’eccellenza dei nostri costruttori e architetti navali sia riconosciuta e stimata negli Stati Uniti credo molto al di là di quanto generalmente si sappia in Italia. Le navi più ammirate e più studiate erano, credetemi, proprio quelle che ave- vano meglio realizzato quell’armonia fra tecnica ed arte e quella coerenza di disegno moderno fra scafo e decorazioni”.
La prima ditta italiana specializzata nell’arredo navale sorse nel settembre 1884, quando Rinaldo Piaggio (1864– 1938) fondò la Società Rinaldo Piaggio rilevando dal padre, commerciante di legname, un vasto capannone su un terreno confinante con i cantieri navali di Nicolò Odero a Sestri Ponente. Tra i soci vi erano lo scultore genovese Pietro Costa e il fratello Giuseppe Piaggio, armatore. Nel giro di pochi anni vennero integrati reparti per la lavorazione dei metalli, del vetro e di tappezzeria oltre agli uffici per la progettazione degli arredamenti; le maestranze erano formate da ebanisti, intarsiatori, cesellatori e decoratori. Tutti i piroscafi passeggeri usciti dai cantieri genovesi del gruppo Odero e dai cantieri Ansaldo dalla fine dell’Ottocento alla prima guerra mondiale furono arredati dalla Piaggio. A questi si aggiunsero le forniture per gli altri cantieri italiani (quali Muggiano, Livorno e Ancona), l’arredo di alcune unità per la marina militare e di molti velieri: si trattava di un vero monopolio. Per la Navigazione Generale Italiana vennero allestiti i piroscafi della classe Regioni e delle classe Ducale oltre al Re Vittorio, al Regina Elena, al Principe Umberto e altre navi minori; per La Veloce gli arredi dei piroscafi Centro America, Venezuela, Savoia, Italia, Brasile, Argentina, America e Oceania; per la Società Italia di Navigazione a Vapore quelli dei transatlantici Toscana, Ravenna e Siena. La Piaggio partecipò alle grandi esposizioni internazionali di Genova (1892), Parigi (1900), Milano (1906) e Torino (1911) e la produzione degli arredamenti risentì del clima artistico del passaggio del secolo. L’affermazione del modernismo internazionale venne tradotta in alcuni allestimenti esemplari (come i saloni da pranzo in stile liberty del Re Vittorio e di America e Oceania) mentre il gusto eclettico dell’architettura del periodo prevalse in alcune realizzazioni fin de siècle: Basti per tutte la curiosa rivisitazione dello stile pompeiano nella sala da fumo del piroscafo Savoia. Negli interni del piroscafo Umbria, della Navigazione Generale, trovò applicazione lo stile barocco, derivato dagli esempi dei transatlantici tedeschi del Norddeutscher Lloyd di Brema, compagnia per cui la Piaggio intorno al 1892 realizzava l’arredamento dei piroscafi Ems, Fulda e Werra in occasione della loro introduzione sulla linea Genova-New York, segno della nomea ormai internazionale della società. Alla vigilia della prima guerra mondiale, Rinaldo Piaggio aprì degli stabilimenti a Finale Ligure a Pisa e a Pontedera diversificando la produzione e l’arredamento navale divenne presto un’attività marginale, fino al totale abbandono; dalla fornitura di traversine ferroviarie in legno si passò alla produzione di rotaie e carrozze ferroviarie e al loro arredamento. La prima guerra mondiale spinse l’azienda verso la costruzione di idrovolanti, aeroplani, motoscafi antisommergibili e motori a scoppio per aerei, poi applicati su ciclomotori, che avrebbero reso celebre la Piaggio nel mondo fino ai nostri giorni. Per i primi piroscafi italiani concepiti come le cosiddette palatial ships britanniche, le gemelle Principessa Jolanda e Principessa Mafalda del Lloyd Italiano (costruite tra il 1906 e il 1909 a Riva Trigoso) si optò per ragioni di prestigio internazionale all’assegnazione dell’incarico a due case straniere da lungo leader nell’arredamento navale: la Waring & Gillow Ltd. di Londra e la J.D. Heymann di Amburgo. Parte dell’allestimento fu dato in appalto ad artigiani e produttori italiani: Frediani di Livorno, Cambi di Siena, Besana di Meda, Ceruti di Milano, la Società Industria Mobili di Cantù e la ditta di Mariano Coppedè di Firenze, che avrebbe poi acquisito un ruolo da protagonista nell’allestimento dei primi importanti transatlantici italiani degli Anni 2003.
Testo di Maurizio Eliseo e Paolo Piccione pubblicato sul numero 51 di Arte Navale. Su gentile concessione della rivista Arte Navale. Le immagini sono pubblicate su gentile concessione della rivista Arte Navale. È fatto divieto per chiunque di riprodurre da mareonline.it qualsiasi immagine se non previa autorizzazione direttamente espressa dall’autore delle immagini al quale spettano tutte le facoltà accordate dalla legge sul diritto d’autore, quali i diritti di utilizzazione economica e quelli morali.
pubblicato il 18 Novembre 2020 da admin | in Storie | tag: Aldolfo Coppedé, Armando Brasini, arredi delle navi più kitsch, arredo delle barche, arredo delle navi, cantieri navali di Nicolò Odero a Sestri Ponente, Gustavo Pultizer Finali, Henry Dreyfuss, J.D. Heymann di Amburgo, Maurizio Eliseo, Nicolò Costanzi, Paolo Piccione, Waring & Gillow Ltd. di Londra | commenti: 0