Le centinaia di uomini, donne e perfino bambini che un tempo vissero qui, in questa baia riparata dalle gelide correnti antartiche, sono scomparse da lungo tempo. Confusa tra i lamenti dei gabbiani e gli acuti stridii delle sterne, portata dal vento che geme tra le lamiere arrugginite sparse tutto attorno, a tratti pare di udirne ancora l’eco delle voci, frammiste ai rumori di attività da lungo tempo cessate. Le imponenti montagne innevate, disposte all’orizzonte come per abbracciare i resti del popoloso insediamento che fu Grytviken, stanno silenti a osservare il lento disfacimento di baracche, serbatoi, installazioni portuali, inviolate e impassibili com’è stato dalla notte dei tempi e come sarà fino al termine dei giorni. Nel novembre del 1904, quando il capitano e baleniere norvegese Carl Anton Larsen fondò il villaggio di Grytviken nella Georgia del Sud, non avrebbe potuto immaginare che presto l’avrebbero abitato oltre 500 persone, in gran parte norvegesi, né tantomeno che l’epoca d’oro della caccia alla balena sarebbe tramontata in meno di sessant’anni. Allora, l’olio estratto in enormi quantità dai grandi cetacei era utilizzato per illuminare paesi e città di mezzo mondo, veniva impiegato come fluido per le trasmissioni degli automezzi, se ne ottenevano sapone, detersivi e perfino la margarina, dopo esser stato idrogenato. Le ossa, finemente triturate, diventavano invece un fertilizzante a buon mercato. Flotte di baleniere, armate dalle potenze navali di quei tempi, solcavano ininterrottamente i mari e gli oceani da una calotta polare all’altra, procedendo a uno sterminio di proporzioni bibliche. L’uomo non era ancora giunto a possedere un’autentica coscienza del proprio impatto sull’ambiente – e, in parte, non ci è arrivato neppure ora – di modo che nessuno comprendeva la portata dell’immensa mattanza che avrebbe presto portato sull’orlo dell’estinzione specie maestose come la balena franca e altri misticeti. D’altra parte, il progresso reclamava le sue vittime sacrificali e i grandi profitti derivati dalla produzione dell’olio di balena venivano pagati a caro prezzo da uomini costretti a vivere in condizioni estreme, sia in mare, sia a terra. Nei primi anni del Novecento sulle coste settentrionali della Georgia del Sud sorsero addirittura sette stazioni per la caccia alla balena, ma ben presto Grytviken, che godeva di una buona posizione nella baia di King Edward e di una gran quantità di acqua potabile, divenne l’insediamento più popoloso e attivo.
In tempi record furono costruite abitazioni e impianti produttivi, installati i grandi bollitori dove veniva sciolto il grasso di balena, approntati gli enormi serbatoi nei quali stoccare il prodotto; nel volgere di qualche stagione sorsero un attrezzato cantiere navale, una stazione meteorologica e perfino una sala cinematografica e una piccola chiesa luterana, l’unica struttura che non ha cambiato destinazione d’uso fino ad oggi. Voluta dalla Compañia Argentina da Pesca, società fondata dallo stesso Larsen e alcuni ricchi investitori di nazionalità diverse, Grytviken conobbe un immediato successo tanto che nella prima stagione vennero lavorate le carcasse di quasi 200 balene. Eccitati dalle buone prospettive di guadagno e in egual misura afflitti dalla solitudine in un mondo così desolato, molti balenieri e operai presero a far giungere le proprie mogli e altri famigliari. Nell’ottobre del 1913 a Gritviken vide la luce il primo bimbo mai nato a sud della cosiddetta Convergenza Antartica, ossia la fascia di mare che circonda il continente di ghiaccio, là dove le gelide acque polari incontrano quelle più calde delle zone temperate.
I rifornimenti di derrate alimentari e quanto necessario a una sopravvivenza per lo meno dignitosa erano garantiti dall’arrivo, circa ogni due mesi, di una nave cargo che ripartiva con le stive colme del prezioso olio. La vita era dura, come si può immaginare, e se Jack London avesse conosciuto quest’ultima Thule, l’avrebbe descritta con enfasi in uno dei suoi romanzi; il fetore delle carcasse in decomposizione a tratti era insostenibile, le condizioni igieniche erano per lo meno discutibili e, appena ne avevano la possibilità, gli uomini annegavano nell’alcool le proprie angosce. Le attività di pesca e trasformazione si facevano frenetiche durante l’estate australe, da ottobre a marzo, per ridursi alle semplici routine di sussistenza durante i durissimi inverni, quando molti preferivano tornare nei propri paesi d’origine, lasciando però sul posto un nutrito manipolo di ardimentosi che si prendevano cura della flotta peschereccia e delle varie installazioni. Durante la seconda guerra mondiale, la marina militare britannica si vide costretta ad armare un vecchio mercantile per pattugliare le acque dell’isola e costruì persino due postazioni di artiglieria – manovrate da volontari – per difendere la baia dagli attacchi delle navi corsare tedesche, che peraltro riuscirono a sorprendere e semi distruggere gran parte delle altre installazioni, come Stromness, Usvik e Ocean Harbor.
Poi, la drastica diminuzione dei cetacei causata dalla caccia indiscriminata e l’avvento di prodotti lampanti più moderni ed efficaci come cherosene e petrolio, decretarono il rapido declino dell’epica caccia alle balene. Nel 1966 ogni attività cessò a Grytviken e lo stesso destino toccò alle altre stazioni, oggi ridotte a silenti ammassi di rovine, inavvicinabili per il rischio di crolli improvvisi.Dell’incredibile epopea ai confini del mondo abitabile, in quella che per pochi decenni fu la capitale non dichiarata della Georgia Australe, resta solo una distesa di ruderi e macchinari arrugginiti, sparsi come le carcasse di creature mitologiche appartenute a un’era tramontata. In decenni di abbandono le abitazioni sono in gran parte collassate sotto il peso delle nevicate invernali e infine sono state smantellate, tanto che ormai ne restano solo le fondamenta in cemento e pietra.
I patetici relitti di alcune baleniere si vanno lentamente disfacendo nel porto, costellato di eliche, alberi motori, grandi catene e altri rottami. Le uniche strutture ancora in uso sono la chiesa, restaurata di recente, una costruzione adibita alle ricerche scientifiche e il piccolo ma emozionante Museo dedicato alla storia delle attività baleniere, così come a quella dell’isola e delle esplorazioni antartiche; l’edificio in origine era la residenza del dirigente della stazione e della sua famiglia.
Al suo interno è conservata la James Caird, ossia la scialuppa di appena sette metri con la quale Ernest Shackleton e cinque dei suoi uomini, nel 1916, riuscirono ad attraversare 1500 chilometri di Atlantico e raggiungere la Georgia del Sud. Oggi il museo è la più popolare attrazione dell’isola, dove convergono i visitatori giunti a bordo di yacht e navi da crociera, che immancabilmente vanno poi a raccogliersi per un momento sulla tomba di Shackleton, qui deceduto nel 1922 alla vigilia di una nuova spedizione al Polo Sud e sepolto nel piccolo cimitero del villaggio per volere della moglie.
In silenzio tra le tombe ormai senza nome di balenieri e operai morti in questa estrema landa, è commovente scoprire che, accanto allo spoglio cippo sotto il quale giacciono i resti mortali di uno dei più grandi esploratori che l’umanità abbia conosciuto, riposa in eterno anche Frank Wild, il suo fido braccio destro. Le sue ceneri furono inumate qui nel 2011, per volontà degli eredi: nessun altro luogo sarebbe stato più adatto per questi due uomini valorosi, che in vita avevano condiviso sogni, fatiche, determinazione. La popolazione attuale di Grytviken, che in effetti pernotta nella vicina base britannica di King Edward Point, conta appena venti unità.
Le balene, grazie anche alla moratoria sulla caccia ai cetacei promulgata nel 1986, sono lentamente tornate a popolare il loro regno d’acqua.
pubblicato il 11 Febbraio 2025 da admin | in Storie | tag: caccia alle balene, città abbandonate, Compañia Argentina da Pesca, Ernest Shackleton, Georgia del Sud, James Caird, villaggio fantasma di Grytviken | commenti: 0