Il 16 giugno 2009, nel porto di Buenaventura, Alvaro Uribe, presidente della Colombia, ha inaugurato, alla presenza del calciatore Ivan Ramiro Cordoba, dell’ambasciatore italiano e delle massime autorità, una nave bianca di 27 metri. Raccontata così, potrebbe sembrare la cronaca del varo di un lussuoso motoryacht acquistato dal noto calciatore, uno dei tanti prodotti per i quali la cantieristica italiana è apprezzata in tutto il mondo. La storia invece è un’altra. Buenaventura, una cittadina portuale sulla costa pacifica della Colombia, dista circa un centinaio di chilometri da Cali, località tristemente conosciuta per essere una delle basi dei narcotrafficanti. Questi controllano di fatto ampie aree di territorio sul quale impediscono ogni forma di presenza statale, legalità e assistenza sociale a favore delle popolazioni locali, le cui miserrime condizioni di vita contrastano con la ricchezza dei quartieri residenziali della capitale o dei resort caraibici sulla costa atlantica. Qui la mortalità infantile è di gran lunga superiore alla media a causa della malnutrizione e delle precarie condizioni igienico-sanitarie, delle mancate campagne di vaccinazione e dalla pressoché totale mancanza di nozioni circa la prevenzione delle malattie. Non esistendo strade né aviosuperfici, per le popolazioni dei villaggi situati nelle aree interne della foresta pluviale, dal lato dello spartiacque verso il Pacifico, l’unica via di collegamento è costituita unicamente dai fiumi che sfociano nell’oceano. Ma le condizioni di estrema povertà non consentono ai residenti di muoversi su lance private verso la costa, se non molto raramente. Un problema al quale era possibile ovviare esclusivamente allestendo un ospedale in grado di andare direttamente dai malati.
La motonave bianca di 27 metri, in acciaio, con ben quattro ponti e un equipaggio di sette marittimi, comandante incluso, è una nave ospedale, una delle poche al mondo attualmente operative. Batte bandiera colombiana, ma anche il nostro tricolore perché sono italiani gran parte dei fondi arrivati per la sua realizzazione. Il suo nome è San Raffaele, per riconoscenza a chi ha reso possibile l’iniziativa. Questo progetto è la continuazione di quanto iniziato già nel 2005 da Diego Posso, paramedico colombiano che ha lavorato per anni all’ospedale San Raffaele di Milano e dalla cui Fondazione ha ottenuto i fondi per l’acquisto, nel 2007, di questa nave costruita in loco circa 10 anni prima per il piccolo cabotaggio costiero e fluviale. Parlare con Diego Posso è un’esperienza in sé. Si viene travolti, quasi storditi, dal suo entusiasmo e dalla sua capacità di buttare il cuore oltre l’ostacolo, qualunque esso sia. “Grazie all’allora presidente colombiano Alvaro Uribe – racconta Posso – venne modificata la normativa nazionale per le navi ospedale, in modo da consentirci di operare. Esiste anche un analogo servizio pubblico, ma per molteplici ragioni non riesce ad assolvere ai suoi compiti. La nave è gestita dalla Fondazione italocolombiana del Monte Tabor, la quale riceve alcuni contributi statali, ma essenzialmente si autofinanzia attraverso raccolte fondi e alcuni sponsor privati per cercare di coprire i circa 600.000 euro all’anno necessari. In questo ci è di grande supporto Ivan Ramiro Cordoba, un testimonial famoso tanto in Colombia quanto in Italia”. La nave San Raffaele è dotata di una sala operatoria con annessa recovery room, quattro ambulatori di medicina generale, un ambulatorio odontoiatrico, uno pediatrico e uno ginecologico dotato di ecografo per il monitoraggio delle gravidanze.
A bordo trovano inoltre spazio il laboratorio di analisi e la farmacia, il tutto gestito da un equipaggio sanitario di 26 persone, tra volontari non pagati e personale stipendiato. Trattandosi di una missione umanitaria, la San Raffaele non ha mai avuto alcun problema, pur muovendosi in un’area spesso controllata dalla guerriglia o da gruppi al margine della legge. Per scelta di Diego Posso, sulla nave non si trova alcuna guardia armata e nessuno, paziente o sanitario, può salire a bordo con armi. Sulla San Raffaele il ritmo è molto intenso, di notte si viaggia fra i vari villaggi, nei quali si resta il tempo strettamente necessario per le visite e le terapie chirurgiche o d’urgenza. Qualche dato per dare un’idea: in dieci giorni vengono effettuate circa 4.000 visite e 150 operazioni chirurgiche e sinora oltre 40.000 pazienti hanno ricevuto le cure di cui abbisognavano. Purtroppo, data la grande domanda, si stimano in circa 10.000 le persone che non hanno potuto ricevere assistenza. Tra questi, talvolta, anche pazienti le cui patologie non sarebbero state gestibili a bordo. Proprio per questo la nuova sfida della Fondazione e del suo direttore è la costruzione dell’Ospedale Bassa Marea del San Raffaele a Buenaventura, con una capienza di 100 posti letto proprio di fronte al molo dove viene ormeggiata la nave.
Testo di Giuliano Luzzatto pubblicato sul numero 90 di Arte Navale. Su gentile concessione della rivista Arte Navale.Le immagini sono pubblicate su gentile concessione della rivista Arte Navale. E’ fatto divieto per chiunque di riprodurre da mareonline.it qualsiasi immagine se non previa autorizzazione direttamente espressa dall’autore delle immagini al quale spettano tutte le facoltà accordate dalla legge sul diritto d’autore, quali i diritti di utilizzazione economica e quelli morali.
pubblicato il 2 Febbraio 2016 da admin | in Storie | tag: Alvaro Uribe, Buenaventura, Colombia, Diego Posso, Fondazione italocolombiana del Monte Tabor, Ivan Ramiro Cordoba, nave bianca | commenti: 0