Kasoma se ne sta dritto a poppa, faccia al sole e sguardo all’infinito, in sorprendente equilibrio su uno scafo così stretto e lungo. Un bilanciere, grossolano ma efficace, impedisce a quel tronco di ribaltarsi mentre a forza di braccia quattro rematori lo spingono verso l’orizzonte. Seguito da altre canoe e vogatori, Kasoma usa la testa come un periscopio, scruta le impercettibili increspature del mare, un lievissimo cambio di colore, insomma un minuscolo, ma tangibile segno della presenza di un branco di pesci. È capitano e proprietario di queste di altre dieci barche. A 58 anni è il capo assoluto di una famiglia di pescatori Vezo, nomadi del mare d’origine indonesiana sparpagliati lungo la costa occidentale del Madagascar. Da Majanga a Lavanunu questa costa, affacciata sul Canale di Mozambico, è una delle zone più pescose del mondo. D’improvviso un grido, un cenno in una direzione e il ritmo della vogata aumenta. Le barche si discostano disponendosi a ventaglio. Si fermano poi tutte insieme, allineate ed equidistanti l’una dall’altra come in parata. Dalla canoa di Kasoma, a un’estremità dello schieramento, viene dipanata una rete che facendo un’ampia curva raggiunge l’estremità opposta. Poi i rematori diventano nuotatori e dal mare urlano e schiaffeggiano l’acqua con mani e bastoni, si immergono per inseguire le prede, terrorizzandole e spingendole verso il cul-de-sac della rete che man mano viene recuperata piena di variopinti pesci tropicali. Kasoma vive ad Anakao, oltre l’estuario dell’Onilany dove i Vezo prendono il nome di Sara. Esce a pescare tutti i giorni con i suoi otto figli, per sfamare le 50 bocche della sua famiglia allargata.
Ogni anno, da giugno a settembre, quando il mare è meno pericoloso e la stagione dei cicloni è lontana, i membri attivi della famiglia salgono sulle piroghe e restano fuori per settimane, spostandosi lungo la costa o raggiungendo isolotti disabitati e lontani, seguendo la migrazione dei branchi di pesce.
Improvvisano accampamenti di tende utilizzando le stesse rappezzate vele quadrate che spingono le canoe. Le donne essiccano o affumicano il pescato e i bimbi giocano sulla riva del mare con piroghe giocattolo. Per pescare, i Vezo usano anche ami e fiocine e catturano con le mani le tartarughe di mare, ma la tecnica di pesca con le reti è la più spettacolare. Questi nomadi del mare disdegnano senza appello qualsiasi lavoro legato alla terra e al bestiame. Per quello ci sono i Masikoro, i Mikea, semi-nomadi della foresta, e i Tanalana, popoli “di terra” che vivono nell’immediato entroterra, capaci di riconoscere ogni singolo loro bovino dall’impronta del suo zoccolo nella polvere. Sono loro, con i carretti tirati dagli zebù, che trasportano nel villaggio dei Vezo legna da ardere e masserizie. Spingono anche i loro carri e animali nell’acqua alta un metro per raggiungere le barche dei turisti che da Tulear si imbarcano per Anakao, estensione balneare di un classico fra gli itinerari turistici in Madagascar. Lo zebù, per tutti i malgasci, è simbolo di ricchezza e prestigio sociale, ma per i Vezo non è niente.
Per i nomadi del mare simbolo del successo è possedere una goletta, veliero simile a quelli di epoca coloniale, costruito con le stesse arcaiche tecniche nei cantieri di Morondava, la capitale della tribù. Dice un detto che un Vezo senza piroga non può fare nulla. Il suo legame con mare è radicale, ancestrale: alla nascita dei figli, la placenta viene seppellita vicino alla casa, ma verso il mare, e al mare viene consegnato il cordone ombelicale chiuso in un barattolo.
Anche le veglie funebri avvengono sulla spiaggia. Sono lunghe giorni e giorni, allietate da musiche e baccanali prima che una processione di barche con la vela quadra vergata di nero accompagni il defunto all’ultima dimora. Il mare per i Vezo è un luogo santo, alla stregua di un immenso tempio completo di tabù da rispettare. Vietato sporcarlo e soprattutto mai gettarvi carne di maiale. Al creatore di tutte le cose, si affianca un potente dio del mare, senza nome, del quale si parla sempre in terza persona.
La sua autorità supera quella di altri dei minori che presidiano gli estuari dei fiumi o il potere degli spiriti degli annegati che abitano negli anfratti rocciosi e vengono interpellati in caso di mare cattivo. Anakao, cinquemila anime, si allunga su una spiaggia bianchissima. Si distende oltre la baia di St. Augustin, a metà di una barriera corallina, seconda al mondo per lunghezza. Dietro la spiaggia si allarga la cosiddetta “foresta di spine” che colonizza il sud del Madagascar fino a Fort Dauphin, regno degli scontrosi Antandroy. Fatta di grandi cactus simili a candelabri, piante e arbusti con poche foglie e molte spine, sembra secca all’apparenza, ma in realtà è perfettamente adattata a vivere in un ambiente riarso e ostile ed è capace di fiorire in poche ore appena cambia di qualche grado il tasso di umidità nell’aria.
Di fronte alla spiaggia, al di là di un braccio di mare turchese, si trovano due isolette disabitate: Nosy Ve e Nosy Satrana. Sulla prima, contornata da bellissime spiagge, vivono i fetonti, uccelli bianchi dalla lunghissima coda biforcuta. Sull’altra, più aspra e rocciosa, si allineano le tombe dei Vezo rivolte sempre verso est. Sulla spiaggia stanno in secca centinaia di canoe di ogni dimensione e colore e si allineano le capanne dei tre quartieri che compongono il villaggio: Tsy Foky, Te Karote e Sara. Capanne semplici circondate da una staccionata che delimita il vala, l’enclave che raccoglie le case della famiglia alle quali i pescatori periodicamente ritornano dopo la stagione della pesca. Ovunque ci sono reti stese ad asciugare e maestri d’ascia al lavoro su scafi e bilancieri, bambini che giocano e, nell’ombra, ragazze con il viso coperto dalle maschere di bellezza masonjoany e tabaky. Si tratta di protezioni cosmetiche vegetali e minerali: di colore giallo la prima e arancione la seconda, che proteggono la pelle dalla violenza del sole. Poi c’è qualche negozietto, baretti dove scolarsi una birra e qualche bel resort dal gusto etnico, una scuola con lavagna nera ma senza pareti, il mercatino della frutta, il grossista del pesce e poi due altari votivi per i culti pagani. Il primo, il ramandresy, si trova nel quartiere Tsy Foky e in agosto è al centro di una grande festa in occasione della pesca ai tonni e acciughe, simile a quella che si tiene il primo marzo intorno al secondo e più importante altare, il tranon-draza, nel quartiere Sara, dedicato al Vorombé, il “Grande Uccello”, lo spirito degli antenati.
Il rito del Vorombé ha le cadenze di una messa e, come la messa, si celebra ogni domenica mattina, con i fedeli accovacciati sulla sabbia a intonare canti e i sacerdoti, divenuti tali per diritto ereditario, ad affaccendarsi intorno al tabernacolo: una colombaia ripiena di collane e conchiglie, fango, caolino, pezzi di legno, pasta d’argento (l’oro è tabù), miele e l’acqua sacra della schiuma delle onde marine. Gesti e litanie servono per indurre in trance il pizeky, il medium, attraverso il quale gli spiriti degli antenati rivolgono ai vivi richieste, auguri, rimproveri ed elargiscono previsioni sulla stagione di pesca ai tonni e alle acciughe. Che arriveranno come sempre verso giugno, inseguiti ovviamente, fra gli spruzzi, dalle canoe di Kasoma e dei suoi compagni.
pubblicato il 10 Maggio 2018 da admin | in Storie, Viaggi & Rotte nel mondo | tag: Anakao, baia di St. Augustin, Canale di Mozambico, costa occidentale del Madagascar, foresta di spine, nomadi del mare, pescatori Vezo | commenti: 1
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