Le isole Orcadi sono un luogo remoto e perso nel tempo, un frastagliato arcipelago che emerge dalle fredde acque del Mare del Nord, a settentrione della punta estrema della Scozia. George Mackay Brown, il più noto poeta del luogo, le descrisse come «balene che dormono»; dolci colline verdeggianti si ergono sulle onde come dorsi di capodogli. Il paesaggio, tuttavia, può essere anche molto diverso: le scogliere di Hoy, per esempio, si annunciano ai navigatori come impressionanti pareti di arenaria rossastra, bastioni a picco sul mare davanti ai quali si staglia un faraglione alto circa 140 metri, assurto a simbolo delle isole e noto come “Old man of Hoy”. Il solitario gigante saluta l’arrivo di quanti raggiungono l’isola principale, Mainland, per approdare nel porto di Stromness, il cui nome gaelico – Hamnavoe – significa letteralmente Baia della Pace. A dire la verità, non sono molti i visitatori da queste parti, forse perché i più sono in- timoriti dal clima piuttosto rigido e dalle frequenti piogge. In effetti, le Orcadi non attraggono le grandi masse turistiche
e raramente vengono citate per qualsivoglia ragione. Gli appassionati di eventi bellici si rammentano di esse associandone il nome a quello di Scapa Flow, la grande baia che durante la Prima e la Seconda guerra mondiale fu la più importante base navale britannica; gli estimatori di birre “esoteriche” (e di difficile reperibilità) apprezzano l’incredibile varietà di aromi che si sprigionano dai nettari prodotti nel locale birrificio. Gli amanti dei paesaggi solitari, propri del Grande Nord, vengono qui per respirare un’atmosfera di altri tempi e farsi cullare dal malinconico richiamo dei fulmari (volatile marino).
A vederle, così solitarie e vagamente ostili, pare impossibile che queste isole abbiano alle spalle una storia ultramillenaria e siano state, in epoche remote, la culla di una civiltà complessa e per certi aspetti ancora misteriosa, oltre che l’approdo per secoli delle navi vichinghe che facevano la spola tra la Scandinavia e l’Islanda. Le complesse vicende di queste terre emerse sono racchiuse nel loro stesso nome, che curiosamente vuol dire Isole dei cinghiali: Orkney si compone infatti del lemma celtico ork (che appunto significa cinghiale) e del suffisso in norvegese antico ey, ossia isole. Le indagini archeologiche hanno ormai appurato che i primi abitanti appartenevano a tribù celtiche, agricoltori e pastori giunti qui dalle coste settentrionali scozzesi probabilmente a bordo di piroghe; appena insediatisi, presero a erigere grandi cerchi megalitici e tombe a tumulo. Si può a ragione affermare che alcune delle più straordinarie testimonianze della civiltà neolitica conservatesi in Europa sorgono sull’isola di Mainland, che proprio per questa ragione – a partire dal 1999 – è stata inclusa dall’Unesco nell’elenco dei siti patrimonio dell’Umanità. Qui sono infatti visibili diversi impressionanti monumenti megalitici, i cui esempi più eclatanti sono le pietre erette di Stennes e il Cerchio di Brodgar; i monoliti vennero eretti tra il 3000 e il 2500 a.C., quando il clima a queste latitudini era più mite rispetto a oggi e le isole dovevano essere intensamente abitate.
Le pietre di Stennes facevano parte di un cerchio del diametro di quasi 32 metri, in origine composto da 12 lastre alte fino a 5 metri, utilizzati per svolgere funzioni rituali e astronomiche; da qui si possono scorgere in lontananza il cerchio di Brodgar (dal diametro di ben 104 metri) e il grande tumulo funerario di Maeshowe, ossia il maggiore sepolcro a camera delle Orcadi. Ciò suggerisce che questi dovevano un tempo far parte di un più vasto complesso cerimoniale, nel quale erano collegati tra loro e con alcuni elementi naturali del circostante paesaggio. In origine il cerchio di Brogdar, tuttora circondato da un profondo fossato, era composto da 60 monoliti, solo 27 dei quali sono rimasti in situ. L’area tutt’attorno è costellata da numerose altre pietre erette, tombe e resti di edifici preistorici, rituali e residenziali (noti come Barnhouse Settlement), che conferiscono al luogo un fascino indicibile.
Per rendersi conto dell’eccezionalità dei luoghi occorre inoltre ricordare che sulla piccola isola di Papa Westray, a nord di Mainland, si trova la straordinaria Knap of Howar, ossia la più antica casa in pietra conservatasi in tutto il Nord Europa: composta da due stanze pressappoco rettangolari e collegate da una porta, risale al 3500 a.C. circa. Ossia, è di circa mille anni più antica della Piramide di Cheope, a Giza. Durante l’Età del Bronzo sulle Orcadi giunsero i Picti, un popolo dalle origini misteriose che deve il nome ai Romani, evidentemente colpiti dai colori vivaci con cui si dipingevano il corpo prima di scendere in battaglia. I Picti si fusero poi con gli Scoti, genti arrivate dall’Irlanda (sembra strano, ma è così: furono costoro a dare l’attuale nome alla Scozia).
Attorno al 790 gli isolani si apprestarono a contrastare un grave pericolo che stava giungendo da nord: i Vichinghi. I Norsemen, come li chiamavano gli abitanti delle isole britanniche, vivevano in quel periodo una fase di grande espansionismo e le loro snelle navi, i drakkar, si spingevano sempre più a ovest. Era dunque inevitabile per le loro missioni esplorative giungere prima o poi sulle Orcadi: l’arcipelago, infatti, si trova alla medesima latitudine di Oslo e di Stoccolma (tant’è vero che qui d’inverno le giornate sono cortissime, mentre d’estate si può passeggiare tranquillamente anche a mezzanotte, senza bisogno di una torcia). L’arrivo dei Vichinghi, così almeno pare, non fu legato a grandi spargimenti di sangue, ma – anzi – i nuovi arrivati si mescolarono ben presto con gli isolani, portando alla singolare fusione di elementi celtici con quelli scandinavi. Anche il cristianesimo, portato sulle Orcadi già a partire dal 600 circa dai monaci di San Columba, fece len- tamente presa sui rudi guerrieri, che presero a convertirsi; sull’isolotto di Brough of Birsay, dove si trova un ben conservato insediamento vichingo, tra i ruderi più cospicui vi sono quelli di una piccola chiesa del 1100 circa. La conversione, tuttavia, non trattenne i Vichinghi dall’utilizzare l’arcipelago come una vera e propria testa di ponte per le loro frequenti e sanguinose incursioni contro la Scozia e l’Irlanda, oltre che, per buona misura, contro la stessa madrepatria. Questo atteggiamento piuttosto aggressivo indusse il re norvegese Harald Hårfagre, che aveva appena unificato sotto una medesima corona i vari regni vichinghi scandinavi, a lanciare nell’875 una spedizione punitiva contro i ribelli delle Orcadi. Molti di questi dovettero fuggire in Islanda, dando peraltro inizio alla massiccia colonizzazione dell’isola, mentre i rimanenti si assoggettarono ad Harald, che istituì una vera e propria dinastia di governanti locali (gli jarl, o conti di Orkney). I vichinghi delle Orcadi rimasero fedeli fino al 1231, anno in cui la linea dinastica diretta degli jarl si estinse; le isole, infine, furono cedute al regno di Scozia dal re di Danimarca e Norvegia Cristiano I, nel 1468.
Oggi, il retaggio vichingo è ancora ben presente sulle isole, dove oltre un terzo degli abitanti presenta un patrimonio cromosomico affine a quello dei norvegesi; inoltre, molti cognomi e toponimi locali attestano l’influenza nordica.
Per esempio, il grande tumulo di Maeshowe palesa tale ascendenza nel suo nome, poiché la parola howe deriva dall’antico norvegese e significa collina. Come si narra nell’Orkneyinga Saga, un antico testo vichingo, fu lo jarl Harald Maddadarson a entrare per primo nell’antico tumulo nella seconda metà del XII secolo, durante una terribile bufera invernale, ma non è dato sapere se e che cosa lui e i suoi uomini trovarono all’interno. Né se il racconto sia attendibile. Di certo, il monumento attirò l’attenzione di molti visitatori vichinghi, diversi dei quali si sentirono in dovere di lasciare una propria impressione: infatti, questa grande tomba megalitica conserva al suo interno la più cospicua raccolta conosciuta di iscrizioni vichinghe. Si tratta di veri e propri graffiti, incisi sulle pietre del corridoio e delle camere funerarie da più di una trentina di individui. Come accade ancora oggi, si spazia da considerazioni legate al luogo, a pure scurrilità. Per esempio, un tal Ragnarr ricorda di essere entrato nel tumulo (che, con la sua vetustà, doveva incutere un certo timore), assieme ai suoi coraggiosi figli, mentre la “fiera vedova Ingebjork” dice, forse un po’ piccata, di essere entrata avanzando carponi (in effetti, l’accesso è alto poco più di un metro). Alcuni, laconici, rimarcano semplicemente la propria visita, come Ofram figlio di Sigurd, oppure Haermun, che si limitano all’immarcescibile: «è stato qui». Altri si vantano delle proprie qualità, come un tale che annuncia: «Queste rune sono state incise dal più abile incisore di rune di tutto il mare occidentale». Peccato che il tempo abbia reso illeggibile il suo nome. Alcuni guerrieri paiono interrogarsi su questioni assai pratiche: «A nord-ovest c’è un grande tesoro nascosto», «Fu nascosto qui molto tempo fa», «Felice colui che riuscirà a trovare il grande tesoro d’oro». Altri hanno una diversa opinione: «È certamente vero quel che dico, cioè che il tesoro è stato portato via. Il tesoro fu portato via nel corso di tre notti tempo fa». Ma c’è chi è del parere opposto: «Mi è stato detto che il tesoro è qui, nascosto molto bene. È meglio dire poco al proposito, come fa Odr». Infine, veniamo a sapere che: «Hakon da solo ha portato via il tesoro da questo tumulo». Disinteressato a certe questioni, un innamorato, evidentemente immune al mistero del luogo, scrive sognante: «Ingigerth è la più bella di tutte le donne», mentre una tal Thorni, decisamente spregiudicata, ci rammenta che l’antico tumulo poteva servire a pro- positi alquanto terreni, e infatti afferma soddisfatta di aver appena fatto sesso, apparentemente con quel Helgi che si è assunto il compito di riportare l’evento, pago dei favori ricevuti. Un altro graffito accenna al fatto che nel tumulo talvolta si entrava con donne lascive e i termini usati per descrivere il resto sono piuttosto espliciti. Non il massimo della finezza, ma sui muri di Pompei si leggono amenità ben più crude. Proprio vero: le cattive abitudini non hanno latitudine.
Testo di Fabio Bourbon, pubblicato sul numero 73 di Arte Navale. Su gentile concessione della rivista Arte Navale. Le immagini sono pubblicate su gentile concessione della rivista Arte Navale. E’ fatto divieto per chiunque di riprodurre da mareonline.it qualsiasi immagine se non previa autorizzazione direttamente espressa dall’autore delle immagini al quale spettano tutte le facoltà accordate dalla legge sul diritto d’autore, quali i diritti di utilizzazione economica e quelli morali.
pubblicato il 11 Agosto 2022 da admin | in Storie, Viaggi & Rotte nel mondo | tag: cerchio di Brodgar, Papa Westray, Stennes, tumulo di Maeshowe, vichinghi | commenti: 0