Silvestr Ščedrin nacque nel 1791 a Pietroburgo. Il padre, noto scultore che insegnava all’Accademia di Belle Arti, lo avviò alla professione di pittore. Lo zio, Semën Fëdorovic Ščedrin, anch’egli professore dell’Accademia, dove era responsabile della cattedra di Paesaggio, lo accompagnava a visitare l’Ermitage fin da piccolo e qui il fanciullo restò affascinato dalle opere di Canaletto, igno- rando e tralasciando tutto il restante mondo pittorico esposto. Molto probabilmente fu proprio lo zio a far nascere in Sil’vestr l’amore per l’Italia e la voglia di recarvisi. Ščedrin venne ammesso all’Accademia a soli nove anni. Fu allievo di Michail Matveevič, titolare della cattedra di pittura di “battaglia” e successivamente, alla morte dello zio di Sil’vestr, anche di quella di Paesaggio. Il giovane allievo, che aveva già ricevuto in casa i rudimenti della professione e che aveva deciso di divenire a sua volta paesaggista, terminò con ottimi risultati gli studi a dodici anni. Dato l’eccellente livello raggiunto, si meritò una borsa di studio dello Stato che comportava tre anni di soggiorno pagato in Italia. Purtroppo le vicende belliche del tempo impedirono il viaggio e il pittore restò a Pietroburgo, a lavorare nell’ambito dell’Accademia. In questo periodo si occupò di paesaggi e quadri di genere che pur mostrando la “…pennellata del futuro maestro”, mancavano ancora di una compiuta maturità. Fu nell’estate del 1818 che il giovane pittore, insieme ad altri quattro diplomati dell’Accademia, riuscì a partire alla volta del Belpaese. Il viaggio fu lungo e comportò traversate via mare e lunghi percorsi in diligenza attraverso Germania, Austria e Cechia, sino a giungere a Venezia, città che fece una grandissima impressione all’artista. In una lettera che scrisse ai genitori in quel periodo affermò: “…Guardavo tutto con avidità e non riuscivo a credere che i miei sogni avrebbero potuto avverarsi”. L’obiettivo principale del viaggio era però raggiungere Roma, dove il piccolo gruppo di artisti russi arrivò il 15 ottobre 1818. Conosciamo anche il primo indirizzo di Sil’vestr nella città eterna: Trinità dei Monti, via della Purificazione n. 61. Le linee guida della pittura locale seguivano in quel periodo le indicazioni classiche, di scuola, di pittori quali il Catel, il Camuccini, il Nazareni ed era facile lasciarsi trasportare dal flusso della tradizione.
Solo personalità artistiche spiccate avrebbero potuto trovare in se stesse la forza di scegliere strade alternative, più originali. L’artista russo fu subito colpito, più che dalle tracce dei fasti del passato e dallo sfarzo papalino, dal popolo, dalla sua rumorosa giovialità e dal clima, che gli permetteva di lavorare in condizioni impensabili nel suo Paese. Egli cominciò quindi, dapprima in maniera quasi inavvertita, a cercare un modo, delle tecniche, dei cromatismi che ben si adattassero a questo suo modo di sentire del momento. Sarebbero dovuti passare alcuni anni, però, prima che riuscisse a collocarsi in un ambiente in cui finì col sentirsi totalmente a proprio agio. Nel frattempo lavorò con interesse, anche se a volte con molta fatica, a Roma e nei dintorni, adoperandosi anche nel dipingere quelle rovine che proprio non riusciva ad apprezzare più di tanto. Il suo interesse principale, sempre rivolto verso la gente e la luminosità dell’aria mediterranea, fu maggiormente acuito in occasione del suo primo soggiorno napoletano, dal 1819 al 1821. Questo viaggio fu di primaria importanza per maturare la decisione di stabilirsi in quella zona allo scadere del periodo in cui aveva bene- ficiato della borsa di studio. Inizialmente insistette sull’area romana, per la quale si aggirava dipingendo intensamente. Non aveva alcuno spirito di rivalità nei confronti degli altri pittori e trovava il tempo per intrattenersi al caffè Greco, per pranzare alla trattoria della Lepre e per frequentare il salotto della principessa Zinaida Volkonskaja. Terminati i finanziamenti dello Stato, egli prese ad auto sostentarsi con i proventi della sua arte, che veniva richiesta sia da aristocratici russi che viaggiavano per l’Italia, sia da estimatori locali.
Nel luglio del 1825, Ščedrin si trasferì definitivamente a Napoli. Tranne che per qualche breve soggiorno a Roma e in Svizzera, il pittore non si mosse più. Egli visse e lavorò per i cinque anni successivi tra Napoli, la penisola sorrentina, la costiera amalfitana e le isole di Capri ed Ischia. Instancabilmente, cercò di riportare nei propri dipinti lo spirito dei posti che dipingeva, della gente che incontrava, delle atmosfere che viveva. Il suo amore per Napoli viene trasmesso immutato dai suoi scritti, come quello in cui si lascia andare a dire: “… non posso lasciare Napoli, è talmente bella…”. In questo periodo, produsse un notevole numero di opere, sia su commissione che su propria ispirazione e i suoi dipinti suscitarono giudizi estremamente positivi da parte dei contemporanei. In essi Ščedrin manifestò l’avvenuto raggiungimento della piena maturità artistica e in ogni “pezzo” sono tangibili la maestria, la leggerezza e la ricchezza che derivavano alla sua pittura dall’operare all’aperto. Qualcuno notò che la pittura di Ščedrin era ripetitiva, ma ciò fu vero solo in parte in quanto in ogni dipinto qualche condizione veniva mutata: fosse essa una sfumatura di luce, l’ora del giorno, l’angolatura di ripresa.
Quello che è stupefacente è il fatto che, apparentemente, di questi quadri non c’è quasi più traccia in Italia. Con l’eccezione di alcune tele presenti nei musei napoletani, quelli noti appartengono essenzialmente a collezioni russe. Eppure dietro molti dipinti ci fu sicuramente un committente o un acquirente italiano. La parola fine circa la storia dei quadri di questo pittore è quindi tutt’altro che scritta. Come è vero che molti dipinti, inizialmente attribuiti a lui, si sono poi rivelati essere frutto dell’opera di altri artisti, fra cui alcuni dei massimi esponenti della Scuola di Posillipo. È assai probabile che suoi dipinti siano presenti in vecchie collezioni private italiane e risultino magari attribuiti erroneamente ad altri autori. Dal punto di vista tecnico, va rimarcato come Ščedrin anticipò di diversi decenni i tempi; la tecnica di lavoro all’aperto, da lui adottata, verrà infatti diffusa appieno in Europa solo parecchi anni dopo. Egli amò, nel paesaggio, i soggetti moderati, calmi, quelli in cui la natura mostra il suo volto più armonioso, amico dell’uomo. Il pittore fu capace di fissare sulla tela, con amore, i diversi stati della natura stessa, ma difficilmente l’artista fu visto alle prese con i suoi aspetti estremi, con le sue forze scatenate. Il suo periodo napoletano non fu avaro di riconoscimenti. Tra questi la consegna da parte del Cavalier Antonio Cavalini, direttore della Regia Accademia di Belle Arti di Napoli, della nomina a professore onorario della stessa Accademia. È divertente ricordare come, d’altro canto, egli non fosse troppo interessato a questi onori, come traspare da una lettera al fratello in cui così si esprime: “Sebbene questo professorato non mi faccia alcun piacere, […] non è tuttavia ripugnante, anche se io non l’avevo richiesto e non ci pensavo affatto”. Quello che invece sicuramente sentì molto fu il fascino di quei luoghi.
Non è un caso, infatti, che avendo trascorso nella zona di Sorrento solo pochi mesi – sui dodici anni totali in Italia – ben quarantasette opere, sulle 108 attribuitegli dalla critica moderna, siano relative a paesaggi sorrentini. La sua tecnica era particolare; comportava grosse perdite di tempo, in quanto doveva portarsi nei luoghi che aveva scelto di dipingere per ritrarli dal vero; successivamente, a studio, si limitava ad affinare la composizione, a popolarla di figure che aveva appuntate o sulla tela o su degli album. La sua produzione, come i suoi spostamenti, fu spesso condizionata dalle condizioni del tempo, che pure ne influenzavano la salute e gli stati d’animo. Anche di questo abbiamo numerose testimonianze epistolari come ad esempio, nel 1827, quando, vivendo a Capri, scrisse di essere rimasto prigioniero “dell’aria salubre, degli abitanti gentili e del vino buonissimo”, per aggiungere però: “… il brutto tempo che si è mantenuto fino alla metà di giugno… non mi ha permesso […] di dipingere più di cinque quadri”. Considerato che i cinque quadri furono eseguiti in meno di due mesi, si tratta di un risultato che avrebbe più che soddisfatto parecchi altri pittori meno esigenti con se stessi. I suoi spostamenti furono sempre più condizionati dal suo precario stato di salute. Alcuni periodi di recupero e riposo in cui si nutrì di latte o si curò con le acque minerali sembrarono giovargli, al punto che il 14 agosto del 1830 si sentì in grado di fare a piedi la strada di montagna che collega Vico a Sorrento, impresa che condusse a termine senza accusare fatica. Poi però, il 7 novembre, venne portato da Amalfi, ove si era recato per farsi curare e per dipingere, a Sorrento, ormai moribondo.
La morte lo colse la sera del giorno successivo, ormai privo di conoscenza e fu attribuita a idropsia. Fu sepolto nella chiesa di San Vincenzo, dietro l’altar maggiore, nonostante la cosa suscitasse un certo scalpore dato che l’artista era di religione cristiano ortodossa. Dopo la distruzione della chiesa, la sua tomba fu trasferita nel cimitero monumentale di Sorrento. Uno degli aspetti rimarchevoli dell’arte di Ščedrin consiste nella sua capacità di trasformare un’immagine popolare, la cosiddetta cartolina che tanto a cuore sta al turista, in un’opera d’arte. Dati i vincoli che derivavano dalla volontà dei committenti, spesso poco esigenti e interessati più al souvenir che all’opera d’arte, il pittore si sentiva spesso frustrato nelle sue più profonde aspirazioni. Per questo quando Vasilij Perovskij, membro della Società per la Promozione degli Artisti nonché collezionista e appassionato, gli propose di realizzare una serie di dipinti a tema libero, Ščedrin ne fu entusiasta. Il pittore cercò sempre di cogliere gli aspetti che più lo entusiasmavano nei paesaggi che ritraeva. Tranne quando il committente esigeva una specifica veduta – ed egli odiava mischiarsi alla moltitudine di pittorucoli intenti a soddisfare una commit- tenza di poche pretese – Sil’vestr faceva tutto quanto in suo potere per variare i punti di vista, gli angoli di ripresa delle scene, le composizioni. È per questo che lo troviamo spesso su delle imbarcazioni, alla ricerca dell’inquadratura migliore, anche se questo lo portò anche a subire piccoli incidenti come quando la manovra maldestra di un pescatore, sulla cui barca egli si era appollaiato, lo portò a fare un bagno non previsto. Nei dipinti che riguardano il mare, la pace della composizione, di una bellezza mozzafiato, è spesso sottolineata dalla presenza di un’imbarcazione all’ormeggio o di una piccola nave alla fonda che, pur nella semplicità del tratto, è sempre descritta con amorevole accuratezza, così da non deludere l’appassionato d’arte marinaresca.
Testo di Paolo Bembo pubblicato sul numero 46 di Arte Navale. Su gentile concessione della rivista Arte Navale.Le immagini sono pubblicate su gentile concessione della rivista Arte Navale. E’ fatto divieto per chiunque di riprodurre da mareonline.it qualsiasi immagine se non previa autorizzazione direttamente espressa dall’autore delle immagini al quale spettano tutte le facoltà accordate dalla legge sul diritto d’autore, quali i diritti di utilizzazione economica e quelli morali.
pubblicato il 22 Novembre 2017 da admin | in Quadri | tag: Accademia delle Belle Arti di Napoli, Camuccini, Catel, Cavalier Antonio Cavalini, Nazareni, principessa Zinaida Volkonskaja | commenti: 0