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Il 15 novembre 1861, chi si fosse inoltrato nel deserto egiziano a sud del Cairo avrebbe potuto imbattersi in una carovana assai strana: una vettura a quattro posti trainata da sei cammelli montati da beduini in costume nazionale, un’altra vettura a due posti tirata da tre muli, nove dromedari carichi di bagagli, quattro cavalli e altrettanti asini bardati e un gruppo di beduini di scorta. La carovana era composta da un gruppo di triestini guidati da Pasquale Revoltella, il mitico direttore del Lloyd Austriaco, in visita sul campo per verificare la fattibilità di un progetto ambizioso, quello di aprire un varco marittimo fra l’Africa e l’Asia e consentire così collegamenti celeri e diretti fra l’Europa e l’India. Già, l’India. È davvero sorprendente pensare all’irresistibile fascino che questo enorme territorio ha esercitato nel corso dei secoli, diventando il fine, l’obbiettivo centrale che ha guidato i grandi navigatori del passato e, più recentemente, la ricerca di fruttuosi commerci. Quando Revoltella misurava le tonnellate di sabbia da spalare per realizzare la giusta larghezza del canale (fissata poi in 80 metri), la Compagnia Inglese delle Indie aveva cessato esattamente da 10 anni la sua attività di trading con quel Paese; attività che, col tempo, si era andata sempre più dilatando sino a investire questioni amministrative, giurisdizionali e di governo vero e proprio. Troppo per la Corona britannica, che si era vista costretta, suo malgrado, a sostituirsi alla ormai ingombrante presenza della Compagnia. Ma ormai l’India era entrata nel sangue e nelle abitudini degli inglesi. Fino a quel momento per andare in India non c’erano che due strade: la lunga e perigliosa circumnavigazione del Capo di Buona Speranza, oppure l’attraversamento del tratto di terra fra Alessandria e il Cairo e quindi l’imbarco su un’altra nave in attesa sulle sponde del Mar Rosso: tutto ciò, naturalmente volendo evitare la terza alternativa – sempre teoricamente disponibile – consistente nella cavalcata in cammello attraverso le infuocate piste desertiche che portavano al Tigri e all’Eufrate.

Nel 1835 per andare dall’Inghilterra all’India servivano più di 46 giorni

Nel migliore dei casi, nel 1835, non si impiegavano meno di 46 giorni per raggiungere l’India dall’Inghilterra. Nel caso si fosse voluto optare per la tratta terrestre – relativamente più breve – fra Alessandria e il Cairo, si presentavano due possibilità: la prima consisteva nel proseguire via terra sino a Suez, la seconda nel prendere un battello fluviale lungo il Nilo, sbarcare a Luxor e da qui proseguire via nave. Ma per affrontare queste imprese, il passeggero britannico doveva premunirsi di un extra bagaglio molto ingombrante: quattro o cinque dozzine di bottiglie d’acqua, biscotti (rigorosamente inglesi), generi alimentari di vario tipo. Le cronache dell’epoca riferiscono infatti che “l’acqua era imbevibile, il pane locale non mangiabile, la carne e i polli incredibilmente scarsi e privi di gusto e solo le uova erano masticabili”. A ciò si aggiunga l’organizzazione logistica che comportava l’utilizzo regolare di 2500 cammelli, 450 cavalli e un numero imprecisato di asini, senza parlare del trasporto e dello stoccaggio di enormi depositi di carbone resisi necessari con l’introduzione delle navi a vapore. C’è infine da notare che, poiché questi servizi marittimi gestiti dalla P&O rientravano nella convenzione con il governo britannico in tema di trasporto della posta, questa doveva godere di particolari privilegi.

Se i passeggeri arrivavano all’imbarco dopo la posta rischiavano di restare a terra

Se, per avventura, nel trasbordo di nave in nave e di cammello in cammello il plico della posta fosse giunto all’imbarco del Mar Rosso prima dei passeggeri, l’ammiragliato dava l’ordine di salpare, non importa se i viaggiatori fossero arrivati o no. E gli assetati, impolverati e sfiniti passeggeri paganti dovevano aspettare la nave successiva, il che poteva significare anche un mese di attesa. Alla fine gli inglesi convinsero il Governo egiziano a costruire una ferrovia che, peraltro, fu completata in 30 anni, giusto in coincidenza con l’inaugurazione del taglio dell’istmo di Suez realizzato su idea e iniziativa del principale concorrente della P&O su quelle rotte: il Lloyd Austriaco. Sessanta anni dopo il Lloyd (ormai ribattezzato Triestino) è diventato una grande compagnia internazionale e ha consolidato i suoi servizi sull’India e su tutto l’Estremo Oriente così da caratterizzarne l’attività sociale fino ad oggi. Ma c’è ancora quella spina nel fianco rappresentata dalla P&O che può garantire agli esigenti passeggeri britannici e non, collegamenti efficienti e di classe. La spina nel fianco si fa ancora più dolorosa per il Lloyd quando gli eterni rivali inglesi rompono un’alleanza stipulata alla fine dell’800 per spartirsi il ricco mercato asiatico, con la scusa che l’originale partner austriaco era nel frattempo diventato italiano (anzi, triestino) e con la sbrigativa giustificazione che “there is no more room for other members”.

La motonave Victoria raggiungerà l’Egitto. Anzi, l’India…

Bisognava fare qualcosa. Il 29 giugno 1931 entra in servizio sulla linea per l’Egitto la motonave Victoria. Concepita per collegamenti celeri, ma non velocissimi, la Victoria era stata progettata per una velocità inferiore ai 20 nodi, ma alle prove sbaraglia tutte le previsioni superando ampiamente i 23: è la motonave più veloce del mondo. Può sembrare un paradosso, ma bisogna proprio dire che “fortunatamente” l’era dell’oro del mercato egiziano era finita e i viaggi erano così poco remunerativi che gli amministratori del Lloyd (a cui la neocostituita Finmare forzò saggiamente la mano nell’occasione) decisero di dirottare la bella nave sulla più promettente rotta per Bombay. Fu subito un successo strepitoso e la nave diventò popolarissima in tutti i porti che toccava al punto che i mercanti arabi del Mar Rosso la soprannominarono La Colomba dell’Oceano. Ma per tutti era La nave dei marajà. La Victoria non era solo una nave velocissima, ma era anche molto bella. Lo storico Annovazzi osserva estasiato che “per le sue forme slanciate e la prora inclinata in avanti, per il colore bianco dello scafo con l’elegante striscia azzurra all’altezza del ponte e le due basse ciminiere color giallo tenue inclinate a poppa, per la perfetta armonia delle sovrastrutture a linee avvitate, la motonave Victoria fu giustamente ammirata come la più bella nave passeggeri del periodo fra le due guerre”. La Victoria fu una nave molto moderna anche sotto il profilo dell’arredamento interno, grazie alle firme prestigiose della Casa Ducrot di Palermo e dell’architetto Pulizer Finali di Trieste. L’incontro dello scrittore Paul Morand con la Victoria avvenne nel 1935, mentre si trovava a bordo di una nave della P&O diretta a Bombay, impegnato a scrivere La route des Indes, un libro che sarebbe diventato famoso. Il viaggio è piacevole sulla comoda nave inglese e fornisce allo scrittore riflessioni interessanti sulle consuetudini britanniche e sulla loro indiscussa potenza sul mare. Un mattino si scorge a poppa un puntolino che il giorno prima non c’era. Nel pomeriggio il punto all’orizzonte è diventato una nave, che segue sulla stessa rotta. “Sul vapore della P&O la vita si svolge britannicamente ordinata: il tè, il tennis, i passeggeri vestiti per il pranzo della sera. Vita facile, piacevole. Tutto sarebbe per il meglio in questa Inghilterra galleggiante, se non si scorgesse una nuova costellazione: le luci di poppa della nave italiana che ci ha sorpassato nella notte, e che arriverà a Bombay tre giorni prima di noi”. La Victoria fu varata nel Cantiere San Marco di Trieste il 6 dicembre 1930. Lunga 164 metri aveva una stazza lorda di 13.000 tonnellate. Poteva trasportare 566 passeggeri di cui 239 di Prima classe, 145 di Seconda e solo 182 in quella economica: parametri significativi sull’indirizzo commerciale della nave, orientato verso una clientela di prestigio ed esigente. Fu affondata da un aerosilurante inglese nel gennaio 1942 durante un viaggio da Taranto a Tripoli.

Per entrare nell’aristocrazia delle traversate oceaniche è servita tutta la velocità del Rex

Visto che parliamo di velocità in mare, non possiamo certo trascurare l’impresa del grande levriero, quella che proiettò l’Italia nell’aristocrazia delle traversate oceaniche, quella che attirò su di sé gli occhi ammirati del mondo: la grande galoppata del Rex alla conquista del Nastro Azzurro, la più prestigiosa insegna dei liner transatlantici. L’idea di premiare la velocità con un vessillo da mostrare a tutti, orgogliosamente impavesato sull’albero più alto, era nata molto tempo prima, quando i clipper americani e inglesi, spinti da esigenze commerciali, si contendevano gli oceani nello sforzo di caricare per primi la migliore qualità delle preziose foglioline di té e di arrivare in anticipo sugli avversari ai Docks di Londra o di New York per spuntare i prezzi migliori. L’impegno nelle famose tea races era talmente frenetico e parossistico che la velocità finì per identificarsi con lo scopo stesso della traversata. La fantastica regata dei clipper attraverso tutti gli oceani, condotta senza esclusione di colpi con astuzia, coraggio e fortuna, passerà alla storia. Ma il vero protagonista di tutte le sfide in velocità sugli oceani nell’epoca romantica dei clipper ha un nome tanto venerato, quanto bizzarro: Cutty Sark, che in scozzese significa camiciola succinta, quella che ricopriva una giovane e bellissima strega apparsa fra i fumi dell’alcol a un contadino ubriaco in una notte di tempesta. La stessa camiciola che, trasformata in segnavento dorato, brillerà dal pennone più alto della nave ad annunciare al mondo lo straordinario primato di 67 giorni sulla rotta fra Sydney e Londra. Ma nonostante il Cutty Sark avesse umiliato in velocità il vapore Britannia che filava a 17 nodi, scatenando il sincero e ammirato applauso di tutto l’equipaggio e dei passeggeri del piroscafo, i clipper erano sostanzialmente navi da carico ed era ora che anche il vapore mostrasse i suoi muscoli e incominciasse a celebrare i suoi successi attraverso l’Atlantico. Ora che la grande massa grigia dei diseredati emigranti stava lasciando il posto a una clientela più ricca e più esigente, ora che uomini d’affari, cantanti, campioni dello sport, musicisti, attori venivano contesi da una sponda all’altra dell’oceano correre, vivere a tutta velocità o, meglio, a tutto vapore diventava allo stesso tempo un’esigenza commerciale e anche una questione di prestigio, due facce della stessa medaglia. Per la verità, già dal 1840 il Britannia del signor Cunard aveva per primo fissato in soli 12 giorni e 10 ore nette il primato nella traversata, lasciando in uno stato di prostrazione e di confusione mentale il malcapitato e schizzinoso Charles Dickens, alla sua prima esperienza marinara in vapore. Poi, per più di 50 anni i successi erano stati appannaggio quasi esclusivo di navi inglesi, fino a quando, sul finire dell’800, irruppero prepotentemente e inaspettatamente nella sfida i transatlantici tedeschi: il Kaiser Wilhelm der Grosse coprì la distanza in appena 5 giorni 22 ore e 30 minuti. Per quasi altri 40 anni la conquista del trofeo fu un affare interno fra tedeschi e inglesi. Il britannico Mauretania riuscì da solo a difenderlo per 20 anni, fino a quando il Bremen e il suo gemello Europa da 50.000 tonnellate riportarono in Germania il prestigioso Nastro Azzurro divertendosi addirittura a scambiarselo fra di loro. In realtà, fino ad allora il Nastro Azzurro (o Blue Riband), mutuato dall’insegna dell’Ordine della Giarrettiera, non esisteva nel senso fisico del termine. Esso era piuttosto un riconoscimento morale, una onorificenza fantomatica che non si traduceva in alcuna concretizzazione materiale: ma tutte le navi in tutti i mari del mondo conoscevano benissimo il nome del detentore del momento e, nell’incrociarlo, le loro sirene non mancavano di salutarlo in segno di rispetto e ammirazione. Nel 1931 Mussolini era alla disperata ricerca di qualche impresa strabiliante che potesse accreditare l’Italia agli occhi del mondo. L’anno prima Italo Balbo, per la prima volta nella storia, aveva trionfalmente pilotato uno stormo di 11 idrovolanti da Orbetello a Rio de Janeiro, coprendo i 10.350 chilometri in 65 ore. L’entusiasmo e l’ammirato stupore suscitati in tutto il mondo andavano alimentati con altre imprese straordinarie. E così le due più grandi compagnie italiane del momento si misero a studiare prima separatamente, poi insieme, il modo migliore per progettare e costruire le rispettive navi ammiraglie, destinate a conquistare il Nastro Azzurro. Nello stesso mese di dicembre 1929 la Navigazione Generale Italiana commissionò l’ordine al Cantiere Ansaldo di Sestri, mentre il Lloyd Sabaudo affidò la commessa al Cantiere San Marco di Trieste. Per la grandiosità del progetto la notizia fece presto il giro del mondo, corredata dal nome dei due nuovi piroscafi: Guglielmo Marconi e Conte Azzurro.  Ma, come sappiamo, non furono questi i nomi prescelti. L’ufficio stampa della Ngi preciserà in un comunicato sapientemente tardivo, che il nome sarà Rex “uno dei nomi di maggior successo mai conferito ad una nave, che combina insieme, maestosità, modernità e brevità in una semplice parola di tre lettere”. E i britannici, che incominciavano ad avvertire un vago senso di disagio, si affrettarono a irridere l’iniziativa storpiando il nome in in wreck, ossia “relitto”. Da parte sua, il Lloyd Sabaudo decise di chiamare la nuova nave Dux, ma pare che lo stesso Mussolini – pur lusingato – abbia declinato l’alto onore: se il Dux avesse superato in Atlantico il Rex la cosa sarebbe risultata imbarazzante, ma ancora più insopportabile sarebbe stata l’eventualità inversa. Conte di Savoia, nella tradizione della Compagnia, sarebbe risultato molto gradito a tutti. E così fu. Il primo agosto 1931 è un magnifico giorno di sole. Alle 7 il cantiere di Sestri è già stracolmo di folla: la stampa internazionale parla di 150.000 persone. Verso le 7,30 il treno reale proveniente da Cuneo si ferma silenziosamente proprio sotto il palco e ne discendono Vittorio Emanuele III e la Regina Elena, un poco contratti a causa dell’avvenimento e, soprattutto, per le voci allarmanti di possibili attentati. Il palco reale è pomposo, ma richiama nella struttura e nella decorazione un mausoleo funerario, forse una maliziosa provocazione degli operai del cantiere. Tuttavia non si può evitare di coprire la fiancata dello scafo con un gigantesco fascio littorio alto 20 metri. Alle 7,55 con il consenso del Re, il direttore del cantiere, l’ingegner Piazzai che stava freneticamente ripassando a mente gli ultimi calcoli così come fanno tutti i direttori del mondo al momento del varo, dà ordine di sganciare le ultime leve di ritenzione.

Il tappo della bottiglia di champagn del varo è custodito in un cofanetto tempestato di pietre preziose

La nave è libera, nulla più la trattiene. “In nome di Dio, taglia”. La Regina recide il cavetto che regge la bottiglia di spumante che si infrange gloriosamente sulla fiancata destra (il tappo verrà conservato gelosamente dalla Casa Gancia in un cofanetto tempestato di pietre preziose). Ma la grande nave resta ferma: il suo peso la inchioda sullo scivolo spalmato da tonnellate di sego. Passano alcuni interminabili minuti (forse tre, forse cinque) nel silenzio completo carico di grande tensione. Poi la spinta dei martinetti idraulici accompagna prima quasi impercettibilmente, poi sempre più decisamente la discesa del grande guscio di ferro verso il suo ambiente naturale, il mare.

Mussolini snobbò la cerimonia: non amava il Rex e faceva il tifo per il Conte di Savoia

Mussolini non c’era. Non amava il Rex. Il suo preferito era il Conte di Savoia e al suo comandante, Antonio Lena, aveva dato un ordine segreto, condiviso solo da Umberto e Maria Josè, la madrina del varo della nave: il Conte di Savoia doveva conquistare il Nastro Azzurro alla prima traversata. Velocità a parte, il Rex era davvero uno splendido transatlantico; le cronache dell’epoca commentavano con giustificato orgoglio: “Nessuna comodità fu sacrificata, si abbondò in attrattive: sulla nave infatti si hanno due piscine natatorie di acqua marina o di acqua dolce, calda o fredda, una per la prima classe e una per la seconda speciale, l’antica seconda classe, dalle dimensioni di metri 7 per 15 ciascuna; una vera chiesa per le cerimonie religiose, un teatro, il cinematografo, il tiro a segno, due campi di tennis, uno squash raquet court con annessa galleria per gli spettatori sul ponte degli sport, una sala per la scherma, una per la boxe, un locale per uso borse e banca, tre ricche biblioteche, una sala per danze, ecc.”.

 Rex degli scafi e imperatore dei motori capace di sprigionare 144 mila cavalli

Occorrerà ancora un anno per completare l’allestimento compreso il monumentale apparato motore da 144.000 cavalli e il sontuoso arredamento interno della nave, ma il Rex non vestirà mai la livrea della Ngi, che l’aveva voluto, progettato e fatto costruire. Per volere di Mussolini, nel 1932 questa si era unita al Lloyd Sabaudo dando vita alla Società Italia. E così nel suo viaggio inaugurale il Rex e il suo gemello-rivale Conte di Savoia inalberano gli stessi, nuovi fumaioli e una nuova bandiera contrassegnata dal tricolore e dalle insegne di Genova e di Trieste accomunate in un destino e da una rivalità industriale che le accompagnerà sempre. Il comandante Lena era un uomo colto e raffinato che percepiva con un po’ di distacco gli ordini superiori. Ciò nonostante, non poteva trascurare troppo a lungo il sogno segreto del Duce che imponeva l’urgente conquista del Nastro Azzurro da parte del suo Conte di Savoia. Il 19 maggio del 1933 solo 24 ore separavano la splendida nave dalla conquista del primato. Ma il mare si era messo sul cattivo a forza 9 e così Lena, da gentiluomo qual era, decise di risparmiare ai suoi passeggeri le tribolazioni di una traversata sgradevole e ordinò di azionare i girostabilizzatori, delicati marchingegni destinati a ridurre il rollìo della nave ma, con questo, anche la velocità. Il Conte di Savoia perse la sfida con la tedesca Europa per soli 34 centesimi di nodo, e Mussolini se la legò al dito. “Proviamo col Rex” pare che borbottasse dubbioso. Alle 4 e 40 del 16 agosto 1933 la sirena del Rex squarcia la luce incerta dell’alba nella baia di New York, con 27 ore di anticipo sull’orario previsto di arrivo. La nave era partita il 10 agosto da Genova alle 11,30; aveva fatto scalo a Nizza. Uscendo dal porto francese incrocia il Conte di Savoia nel suo viaggio di ritorno: le due navi sfrecciano vicinissime a una velocità di oltre 29 nodi; la sensazione è che le due navi si separino l’una dall’altra a oltre 100 chilometri orari. Alle 17 tocca Gibilterra e il comandante Tarabotto si chiude nella sua cabina insieme al direttore di macchina a consultare i bollettini meteo. Fino allora le cose sono andate bene: una media di 28,63 nodi in Mediterraneo, ma in Atlantico è cosa ben diversa.

Il consumo di nafta era stratosferico: 4.600 chili all’ora

Alle 18,30 il comandante si presenta in sala macchine e ordina: ”Avanti a tutta forza!”. Per vincere la grande corsa non bastava la potenza delle macchine: occorreva non commettere alcun errore e anche un bel po’ di fortuna. Il giorno 12 la media si fissa a 28,55 nodi: è quasi quella del Bremen che ha conquistato il record appena un mese prima: bisogna fare di più. Intanto, il consumo di nafta è stratosferico: 4.600 chili all’ora, ma la Società Italia ha segretamente autorizzato un imbarco extra di combustibile per 250.000 lire. Qualcuno fra gli ufficiali si diverte a calcolare la velocità di rotazione delle eliche: 225 chilometri all’ora. Intanto in quelle stesse ore, nel cielo sfrecciano in senso contrario 22 idrovolanti italiani al comando di Italo Balbo, dopo aver compiuto un’impresa spettacolare e memorabile e infiammato gli animi dei tanti connazionali di New York. Il mondo ci guarda ammirato ed è davvero un momento esaltante per Mussolini: non si può fallire, nemmeno sul mare. Ma il giorno successivo le condizioni atmosferiche sono pessime; il mare è a forza 8 e le onde spesso superano i 10 metri sommergendo la prua della nave, forte vento contrario e rollio oltre i 20 gradi, ma non importa! Ai 1.099 spaventati e del tutto ignari passeggeri non resta che chiudersi in cabina a fronteggiare il mal di mare.

Neppure onde altre 10 metri e una fitta nebbia hanno fermato la corsa vincente

Nonostante le condizioni difficili dell’oceano, la velocità media è di 28,63 nodi, finalmente superiore a quella del Bremen e il comandante incomincia a pensare che potrebbe essere la volta buona. Passata la tempesta, un ostacolo ancor più insidioso si frappone fra il Rex e la conquista del record: la nebbia. Tarabotto si ritira nella propria cabina combattuto fra la gloria ormai a portata di mano e i rischi di una navigazione azzardata; sa che in caso di collisione la responsabilità sarebbe tutta sua. Poi scende in sala macchine, si concentra qualche minuto in silenzio davanti al suo equipaggio, incrocia le dita e conferma: “A tutta forza!”. Al marconista non resta che aggrapparsi ai suoi tasti: “Attenzione – a tutte le navi – Questa è la nostra posizione – Stiamo filando a 30 nodi”. Per non perdere tempo, o per un gesto di sfida, la nave non si ferma ad Ambrose per accogliere a bordo il pilota.

 Quattro giorni, 13 ore e 58 minuti per coprire 3.181 miglia ed entrare nella leggenda

La grande galoppata si è conclusa. Le 3.181 miglia sono state coperte in quattro giorni, 13 ore e 58 minuti, due ore e mezzo buone in meno del Bremen. È il trionfo, il Rex entra così nella leggenda. Al rientro, a Genova, attendono la nave grandi festeggiamenti: l’Aeroclub prepara un grande guidone azzurro lungo 29 metri, uno per ogni nodo di velocità del record, che viene fissato sul pennone più alto. L’idea piace e verrà ripetuta dai successivi conquistatori del primato inglesi, francesi e americani che tuttora continuano a conservare gelosamente questa nuova insegna di distinzione. Della nostra, prima in senso assoluto, si è persa ogni traccia. Del Rex è rimasta solo la campana, il cuore e il simbolo di ogni nave. Nel 2004 essa è stata donata alla città di Genova.

Testo di Giorgio Grosso pubblicato sul numero 41 di Arte Navale. Su gentile concessione della rivista Arte Navale. Le immagini sono pubblicate su gentile concessione della rivista Arte Navale. E’ fatto divieto per chiunque di riprodurre da mareonline.it qualsiasi immagine se non previa autorizzazione direttamente espressa dall’autore delle immagini al quale spettano tutte le facoltà accordate dalla legge sul diritto d’autore, quali i diritti di utilizzazione economica e quelli morali.

pubblicato il 22 Novembre 2017 da admin | in Storie | tag: Bremen, Compagnia inglese delle Indie, Conte di Savoia, Cutty Sark, Giorgio Grosso, giornale Arte navale, Motonave Victoria, Nastro Azzurro, Ngi, P&O, Pasquale Revoltella, Rex, Società Italia | commenti: 0

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