In turco il suo nome è Menderes, noi lo conosciamo meglio come Meandro. È lungo poco più di 500 chilometri e dall’Anatolia occidentale va a sfociare nel Mar Egeo; il fiume è celebre fin dall’antichità per l’eccezionale sinuosità del suo corso. Il suo nome ha dato origine a uno specifico termine dell’idrografia: meandro, per l’appunto. Visto d’estate, il modesto corso d’acqua che solca pigramente la grande piana alluvionale compresa tra il monte Mycale e il monte Grion, una cinquantina di chilometri a sud di Efeso, non incute particolare rispetto. In primavera, al contrario, la sua portata aumenta vertiginosamente, gonfiata a dismisura dal disgelo sulle circostanti catene montuose. In queste condizioni il Meandro porta a valle un’immane quantità di sedimenti e, anno dopo anno, in un ciclo iniziato nella notte dei tempi, va ad ampliare la pianura spostando perennemente in avanti la linea costiera. Osservando la placida distesa di fertili campi e miasmatici acquitrini, oggi pare impossibile immaginare, nel primo millennio a.C., un vasto golfo, insinuato per circa 40 chilometri nell’entroterra, punteggiato di barche da pesca e segnato dalle scie delle possenti triremi in rotta verso i porti di Mileto, Myonte ed Herakleia al Latmos.
In effetti, agli occhi degli appassionati di archeologia, le grandiose rovine di Mileto appaiono alquanto incongrue: quella che fino alla tarda età romana fu una metropoli dall’intensa vita economica, politica e intellettuale, munita di due trafficati scali commerciali, oggi è una distesa di ruderi intrappolati nei canneti e circondati a perdita d’occhio da coltivazioni di mais e barbabietole. Il mare, da qui, neppure si vede. Constatare come uno dei più floridi porti dell’antichità abbia perso ogni contatto col suo elemento vitale ha il sapore di un amaro scherzo della natura, ma a pochi chilometri di distanza si assiste a uno spettacolo anche più strano.
Distesa lungo le maestose pendici del monte Latmos, l’antica Herakleia è, infatti, ancora affacciata sul suo splendido golfo. O, meglio, su quanto fino alla tarda età bizantina era un braccio di mare e oggi è il lago Bafa. Manco a dirlo, la responsabilità è sempre del Meandro, le cui masse alluvionali progressivamente interrarono lo sbocco al mare aperto di questo ramo del ben più ampio golfo di Mileto. In effetti, dalle sue sponde l’illusione è perfetta: lungo circa 16 chilometri e ampio 6, perennemente increspato dalle brezze del vicino Egeo provenienti dalle circostanti montagne, il Bafa non sembra affatto un lago. A dire il vero, non pare esserne convinto lui per primo, in quanto nelle sue acque salmastre prosperano orate, triglie e anguille. L’abbondanza di pesce, crostacei e molluschi attira enormi stormi di uccelli, compresi gli aironi, i cormorani, i pellicani e perfino i fenicotteri; gli ornitologi attestano ben 224 specie di volatili residenti attorno al singolare specchio d’acqua, la cui particolarità più bizzarra sta nella periodica variabilità del suo tasso di salinità.
Ancora negli anni Sessanta, infatti, vi si pescavano anche le tinche. L’esatto meccanismo responsabile di questo fenomeno non è chiaro, ma pare legato all’esistenza di falde acquifere sotterranee. È invece un dato di fatto la spettacolosa cinta muraria dell’antica Herakleia, lunga sei chilometri e mezzo, costituisce uno dei migliori esempi di fortificazione di età ellenistica. Sorprendentemente ben conservate, le mura sono intervallate da una sessantina di torri e si inerpicano fino a quattrocento metri di altezza sul lago, là dove sorgeva l’acropoli, ossia un imprendibile caposaldo difensivo. La città vera e propria si estendeva invece su un basso rilievo terminante in una piccola penisola: i due specchi d’acqua divisi da questa furono adattati a porti, uno dei quali probabilmente con funzioni militari. L’abitato aveva pianta regolare, di tipo ippodameo, ed era dominato da alcuni monumentali edifici pubblici. Ancora oggi, tra le casette del villaggio di Kapikiri, sorto sulle antiche vestigia, ben si distinguono i resti del teatro, dell’agorà, del mercato a due piani, del bouleuterion (ossia l’edificio del consiglio cittadino) e del tempio di Atena.
La struttura più peculiare è tuttavia il tempio dedicato a Endimione, che nell’abside della cella integra un tratto di roccia affiorante, evocante la grotta del mito: si narrava infatti come la dea Selene, avendo scorto un bellissimo pastorello, addormentato in una caverna del monte Latmos, se ne fosse invaghita perdutamente. Pur di poterlo incontrare ogni notte e congiungersi con lui, Selene aveva invocato Zeus affinché donasse al giovane il sonno eterno e dunque l’eterna giovinezza. Questo mito è noto attraverso diverse varianti, ma è sorprendente il fatto che una leggenda locale ne dia un’interpretazione del tutto diversa. Endimione, infatti, sarebbe in realtà stato un giovane studioso di matematica e astronomia: fu lui a indagare per primo i movimenti della Luna, giungendo a prevederne le eclissi. Sempre sveglio di notte, sotto lo sguardo dell’argentea dea che si specchiava nelle acque del golfo, Endimione fu infine da questa reso immortale. Ancora oggi, si dice che lo splendido giovane dorma il suo sonno perpetuo in una grotta segreta del monte Latmos, ignaro del fatto che non è più il mare a riflettere l’immagine dell’amata, ma un lago.
Testo di Fabio Bourbon pubblicato sul numero 85 di Arte Navale. Su gentile concessione della rivista Arte Navale. È fatto divieto per chiunque di riprodurre da mareonline.it qualsiasi immagine se non previa autorizzazione direttamente espressa dall’autore delle immagini al quale spettano tutte le facoltà accordate dalla legge sul diritto d’autore, quali i diritti di utilizzazione economica e quelli morali.
pubblicato il 18 Febbraio 2015 da admin | in | commenti: 0