Alla fine del XIX secolo il Polo Nord era ancora uno degli ultimi territori della Terra ad essere oggetto di numerosi e drammatici tentativi di esplorazione. Molte delle scienze che hanno cambiato la nostra vita, come la meteorologia e l’oceanografia, alla fine del’800 non esistevano o erano ancora ai primi passi. In mancanza di dati scientifici, le speculazioni più incredibili facevano presa sull’immaginario collettivo. C’era chi immaginava terre fertili e foreste vergini al centro della Groenlandia, e chi, seguendo le fantasie degli antichi, sosteneva l’esistenza di un mare libero dai ghiacci al punto culminante dell’emisfero Nord. Numerose spedizioni si erano perse nelle lande gelate della Groenlandia, fra queste la più celebre e tragica, alla ricerca del mitico Passaggio a Nord Ovest, fu quella condotta nel 1845 dall’ammiraglio inglese John Franklin: un intero corpo di spedizione, il suo leader e due navi scomparse nel nulla. Non erano certo il coraggio
o il senso di abnegazione degli esploratori a fare difetto; ma la visione britannica profondamente impregnata dal colonialismo era non solo desueta, ma assolutamente inadatta alla scoperta del Polo.
Un nuovo tipo d’approccio a quei territori estremi era ormai indispensabile. In Norvegia, Fridtjof Nansen (1861-1930) comincia ad interessarsi ai territori sconosciuti del centro della Groenlandia e ai tentativi d’esplorazione condotti dal finlandese Nordenskiöld, scopritore del Passaggio a Nord-Est, e dall’americano Peary, quando è ancora studente in biologia all’università di Bergen. Nansen, è un ottimo sciatore e pensa che una logistica basata su slitte tirate da cavalli, erbivori inadatti ai territori dove l’erba non cresce, sia inefficace. Ritiene anche che gli uomini siano impreparati ad affrontare il deserto di ghiaccio. Solo una spedizione “leggera e veloce”, equipaggiata di sci e slitte, può, secondo Nansen, riuscire ad attraversare l’Inlandsis. Nel 1888, anno in cui ottiene il dottorato in zoologia, Nansen ha 27 anni e organizza la sua prima spedizione geografica polare. La sua audacia lo spinge a sovvertire le regole degli esploratori che erano soliti partire dalla costa occidentale della Groenlandia per andare verso quella orientale. La costa occidentale offriva porti d’appoggio e insediamenti Inuit stabili dove poter ripiegare in caso di necessità. La costa orientale invece, non era abitata stabilmente dagli Inuit e raro era il passaggio di navi baleniere in campagna di pesca. Nansen asserisce: “Tagliandosi dietro ogni possibilità di ritorno alla prima difficoltà, saremo obbligati ad andare avanti”. Il suo piano poteva sembrare una follia, ma in realtà era ben studiato: farsi trasportare via nave presso il fjordo di Sermilik, sbarcare, scalare il ghiacciaio per accedere facilmente al plateau dell’Inlandsis alto 2700 metri sul livello del mare.
In seguito, cominciare con gli sci la lunga attraversata dell’Icecap per arrivare a Disko Bay, sulla costa Ovest, dove era possibile ripartire via mare per la Norvegia. In tutto un viaggio con gli sci di 600 chilometri. Il finanziamento dell’impresa pone numerosi problemi ma l’intervento del mecenate danese Augustin Gamél, che finanzia il progetto, e una colletta organizzata dagli studenti risolvono la situazione. Nansen recluta cinque compagni. Fra i numerosi candidati che si presentano sceglie tre esperti sciatori abituati alla rude vita all’aria aperta: Dietrichson, Kristiansen, e il capitano di marina Sverdrup. Dalla regione del Finnmark recluta due sami, Balto e Ravna, per imparare il loro modo di alimentarsi e sopravvivere alle latitudini polari. Questa intuizione rappresenta il punto di svolta per le future spedizioni ai poli; Roald Amundsen, futuro conquistatore del Polo Sud, farà tesoro dell’idea di Nansen applicando alla lettera le idee del suo mentore. Nel mese di giugno del 1888, i sei uomini si imbarcano sulla nave baleniera Jason, per raggiungere il fiordo di Sermilik in Groenlandia. Giunti in prossimità della banchisa costiera, due scialuppe sono sbarcate per trasportare uomini e materiali a terra. Gli esploratori avanzano con entusiasmo ma, ormai lontani dalla nave, si rendono conto che la banchisa è fratturata in placche che si muovono minacciose su un mare molto agitato. Il rischio di essere schiacciati è enorme. Al sopraggiungere della notte, si leva una fitta nebbia; ogni contatto con la Jason è tagliato. Gli uomini sono costretti a sbarcare su una placca di ghiaccio, estraggono le due barche dall’acqua e rizzano la tenda per bivaccare. Il comandante della Jason, dopo aver atteso inutilmente il ritorno degli esploratori e confidando nel loro coraggio e nella loro perizia, mette la vela e parte per non essere preso prigioniero dei ghiacci. Come Nansen aveva predetto, lui e i suoi uomini ora possono solo avanzare: “La costa ovest o morte!”.
Per una settimana gli esploratori rimangono bloccati sul ghiaccio in attesa di un miglioramento meteo; mettere le barche in acqua è impossibile, sono prigionieri! La forte corrente li ha spinti verso sud per 380 chilometri ma fortunatamente li ha trascinati verso la parte interna della cintura di ghiaccio. Ora possono tentare il tutto per tutto per raggiungere la costa. Certo, sono sfuggiti al naufragio ma tentare la traversata dell’Icecap dal punto in cui si trovano, non ha più alcun senso. Dopo sforzi sovrumani, remando contro corrente per 200 chilometri, decidono di sbarcare presso Umivik. Lì abbandonano le imbarcazioni e si preparano all’ascensione del ghiacciaio le cui pendici conducono al plateau dell’Inlandsis.
Nuovamente il cattivo tempo si accanisce contro di loro mentre trasportano sulla schiena tutto il materiale. Arrivati infine alla sommità del ghiacciaio hanno la cattiva sorpresa di trovarlo solo parzialmente coperto da neve bagnata e pesante, e aperto da profondi crepacci. I sei non si perdono d’animo, preparano gli sci e assemblano le cinque slitte: le prime quattro sono caricate con 150 chili di materiale, il massimo peso trainabile da un solo uomo; la quinta, trainata da Nansen e Sverdrup insieme, pesa 180 chili. Il labirinto di ghiaccio li conduce a quota 2700, da dove decidono di fare rotta verso Godthab, circa 560 chilometri più lontano. Gli uomini devono avanzare velocemente perché arrivare troppo tardi sulla costa Ovest significa perdere l’opportunità di imbarcarsi sull’ultima baleniera di ritorno alla fine della campagna di pesca e quindi rischiare di passare l’inverno in Groenlandia. Il terreno in leggera discesa offre loro l’opportunità di sperimentare una nuova idea di Nansen: legare a due per due le slitte e installarvi una vela. Sulle prime i due Sami sono riluttanti ad utilizzare questo nuovo equipaggiamento, dopo la dura navigazione a remi fra i ghiacci, non vogliono più sentir parlare di cose marittime, ma l’idea è vincente e alla fine si adattano. Per i quattro norvegesi è tempo di imparare dai Sami l’arte della sopravvivenza nell’universo estremo delle lande gelate. La tempesta soffia sull’Inlandsis e fa scendere la temperatura sino a -46 gradi, lo stato cangiante della neve facilita o ostacola la progressione verso Ovest; nutrirsi, ripararsi e avanzare diventano azioni estremamente difficili. Alla fine di settembre gli esploratori arrivano sulla costa; la parte praticabile del ghiacciaio li ha condotti verso un profondo fiordo ad ovest di Godthab ma le alte scogliere e il ghiacciaio impraticabile bloccano la via. L’unico modo per raggiungere la cittadina è la via marittima. Se gli esploratori voglio riuscire a partire con l’ultima nave devono affrettarsi. Non c’è tempo per riposare. Sverdrup si attiva subito tentando di costruire un’imbarcazione con i mezzi di fortuna a disposizione: la tela di una tenda, i bastoni degli sci o delle slitte, dei rami di salice trovati sul posto. Ed ecco che una piccola barca è pronta per tentare un’ultima avventura. Senza esitare, lui e Nansen partono sull’acqua alla ricerca degli abitanti locali. Quale dev’essere stata la sorpresa degli Inuit nel vedere comparire dal nulla una barca di tela con due uomini a bordo. L’incontro con i locali è cordiale; un’imbarcazione più solida e capiente è inviata a recuperare il resto della spedizione. Una staffetta con kayak parte per tentare di raggiungere l’ultima nave all’ormeggio, situata in un altro villaggio a circa 200 chilometri più a nord, ma è troppo tardi. Il comandante riceve la lettera di Nansen quando sta già levando l’ancora, il rischio di rimanere bloccato dalla banchisa in formazione è grande e rifiuta di attendere i norvegesi. I sei uomini devono quindi rimanere a passare l’inverno ospiti degli Inuit. La loro impresa, tuttavia, è destinata a passare alla storia.
Testo di Jacopo Brancati, pubblicato sul numero 71 di Arte Navale. Su gentile concessione della rivista Arte Navale. Le immagini sono pubblicate su gentile concessione della rivista Arte Navale. E’ fatto divieto per chiunque di riprodurre da mareonline.it qualsiasi immagine se non previa autorizzazione direttamente espressa dall’autore delle immagini al quale spettano tutte le facoltà accordate dalla legge sul diritto d’autore, quali i diritti di utilizzazione economica e quelli morali.
pubblicato il 4 Novembre 2014 da admin | in Storie | tag: Dietrichson, fiordo di Sermilik, Inlandsis, Inuit, Kristiansen, Sverdrup | commenti: 0